(Dalla poesia alla scienza: i vini da flor)
“I suoi riccioli liquidi
sono coperti di fiori bianchi”
(Archestrato di Gela, IV sec. a.C.)
Secondo il grande storico del vino H. Johnson, questi frammenti dell’opera conosciuta sotto il nome di Poema del buongustaio, descrivono una bevanda alcolica a noi familiare!
Sì, nei suoi viaggi alla ricerca dei piaceri della tavola, il poeta della Magna Grecia aveva incontrato, sull’isola di Lesbo, un vino incredibile, che descrive proprio in questi termini. Ora, si potrebbe pensare lecitamente ad un’ebbra fantasia e ad un trasporto forse troppo accalorato da eccessive bevute.
Eppure, lasciata la poesia e senza poter essere certi dell’effettiva identità di quell’antico vino, di liquido alcolico “coperto di fiori bianchi” ne conosciamo anche noi, e di vari! Se la letteratura ci offre indizi per ricostruire tradizioni e legami, la scienza ci aiuta a capirli meglio.
Può essere infatti del tutto probabile che quell’antico vino greco sia avvicinabile a quelli che noi oggi definiamo come vini ossidativi, vinificati sotto “flor“, per dirla alla spagnola.
Dal punto di vista scientifico i “fiori” che si notano sulla superficie del vino in botte non sono altro che catenelle e raggruppamenti di lieviti microscopici dal comportamento curiosamente “sociale”.
Si tratta di uno strato che si forma, in particolari condizioni, sulla superficie del vino che viene messo a maturare in botti lasciate appositamente scolme, ossia non del tutto piene, e, quindi, con un’importante porzione di aria nel recipiente. Tale strato i microbiologi lo chiamano biofilm, i vignaioli francese dello Jura, con un tocco poetico degno di Archestrato, lo chiamano “voile“, velo.
Tornando alla biologia, alcuni ceppi di lieviti, i principali protagonisti della trasformazione del mosto in vino, hanno un patrimonio genetico del tutto eccezionale, che li rende capaci di una doppia vita.
Ad un certo momento della loro avventura nel mosto derivato dalla pressatura delle uve, quando già hanno compiuto il prezioso lavoro di decomposizione degli zuccheri e della loro trasformazione in alcool, cominciano a spostarsi sulla superficie del liquido. Nella fase sommersa, l’ambiente è ad essi favorevole, ricco di sostanze che sono il loro cibo.
Ma se per i normali lieviti, il prodotto di scarto di questo processo nutritivo, ossia l’alcool etilico, alla fine diventa irrimediabilmente fatale e l’habitat che fino a poco prima li deliziava e li nutriva diventa saturo e insopportabile fino a dar loro morte, i lieviti “flor“ hanno una risorsa nascosta: stressati dalla situazione che si va facendo sempre più minacciosa e che cambia ad ogni ora che passa, essi alterano a loro volta il loro metabolismo e accendono un gene particolare, che li rende capaci di “mangiare” anche l’alcool.
In questa nuova fase di vita, diventano idrofobi, e nelle loro membrane cellulari si sviluppa una proteina, chiamata adesina, che favorisce l’aggregazione. Così miliardi e miliardi di microorganismi si ritrovano sulla superficie del vino e si aiutano nel gestire gli scambi con l’ossigeno della botte scolma, sopra di loro, e con l’alcool, al di sotto. Sì, perché nel frattempo, da anaerobi sono diventati aerobici.
Tutto questo prodigio, qui fin troppo banalmente semplificato, è minuziosamente studiato e descritto da fior (è il caso di dirlo) di scienziati. A noi, appassionati di vini, affascina e interessa, ma il giusto, per capire il mistero di tali vini, impreziositi dall’opera mirabile di questi piccoli amici, che permettono al vino di gestire e di vincere la sfida con l’ossigeno, e quindi con il tempo, e di arricchirsi di precursori di aroma e di complessità del tutto particolari, dovuti all’acetaldeide, che è il prodotto di scarto della seconda fase delle grandi scorpacciate dei lieviti flor.
Di questi ultimi è stata perfino tentata una storia evolutiva assi interessante, secondo la quale la mutazione genetica fatidica dovrebbe aver avuto inizio o in Libano o nel sud-ovest della Spagna. Una sorta di mappa immaginaria e favolosa la si può tratteggiare anche osservando i luoghi dove i vini ossidativi venivano e vengono prodotti.
Ad eccezione dei vini dello Jura, le altre tipologie paiono accomunate dalla vicinanza del mare e di porti, come se ci fosse un legame fra ossidatività e “navigabilità” di tali vini. Il che sarebbe un altro coerente indizio per l’ipotesi di Johnson del vino di Archestrato come di un vino da flor.
Se molti sono ancora i misteri di tale insolita e prodigiosa vinificazione, tante sono le scoperte e le storie che possono accompagnare e illuminare gli assaggi di vini ossidativi. Ne condivideremo ancora parecchie, con voi.
Nel frattempo perché non iniziare a stappare?
Proponiamo due etichette. Rimanendo in ambito isolano, come il vino di Lesbo, entrambe provengono dalla Sardegna. Può destare curiosità la particolare bottiglia della prima, adornata da una serigrafia raffigurante la pavoncella sarda, che secondo alcune leggende, risorgerebbe dalle proprie ceneri: una doppia vita, come i lieviti flor.
Il vino rimane in botte scolma almeno per 5 anni, eppure ha una freschezza inaspettata ed incredibilmente giovanile! (vernaccia di oristano)
Le sapienti mani di Davide Orro e della sua famiglia curano tutte le fasi della produzione, guidate da l’obiettivo nobile e coraggioso di riportare in auge un territorio ed un vino tradizionale con idee innovative e assolutamente moderne. Sono passati pochi mesi dalla nostra visita al museo da lui ideato, ma è stato di nuovo arricchito ed ampliato, da renderlo meritevole di un’altra visita (cf. https://www.ecomuseovernacciaoristano.it).
La seconda etichetta, per innamorarsi da subito dei vini ossidativi, viene dalla storica cantina di Bosa, fondata da Gianbattista Columbu. Fiori di assenzio e liquirizia, il naso racconta la macchia mediterranea che circonda i vigneti, e il mare che riflette la luce della costa orientale dell’isola: un terroir benedetto, dove oggi Gianmichele e Vanna resistono, felici di aver come fiore all’occhiello della loro produzione di nicchia un vino fatto apposta perché sia bevuto insieme e sia parlato.
E, di certo, ne parleremo ancora. (malvasia di bosa)
Per chi avesse una forma mentis matematica o fosse a contatto quotidiano con l’informatica, la parola abbinamento forse richiamerebbe il fondamentale sistema binario. Ad un appassionato di sport, la stessa parola farebbe venire in mente gli accoppiamenti sorteggiati per le varie fasi di un torneo.
Anche nella moda e nell’abbigliamento, l’abbinamento è un aspetto importante e per nulla trascurabile. Avvicinandoci all’etimologia della parola, potremmo immedesimarci in tante generazioni di studenti di lettere antiche, alle prese con una serie un pochino astrusa di aggettivi numerali latini, i distributivi, cioè quelli che con una sola parola indicavano quanto in italiano bisogna rendere in modo più complesso: “a due a due”, era, ed è, traducibile con bini, -ae, -a.
In tutti questi casi abbiamo a che fare con una visione della realtà secondo la quale le cose vanno osservate e comprese in modo non singolare e unilaterale. Si tratta di accoppiare cose, situazioni, numeri, persone etc. in base ad un principio basilare: la singolarità si arricchisce dallo scambio con l’alterità.
In ambito enogastronomico dell’abbinamento si è fatta una teoria, una scienza: il food pairing arriva a studiare perfino la dimensione molecolare, per comprendere se e come due pietanze possano stare bene insieme, così pure se un piatto possa essere “innaffiato” piacevolmente da un determinato vino. C’è da rimanerne davvero affascinati! E se capiterà, ne vedremo esempi concreti, e ne parleremo.
Ora ci interessa, rimanendo ad un livello più astratto, cercarne i fondamenti, che poi si verificheranno nelle varie occasioni. Né vogliamo in questo momento appesantirci con definizioni ed equazioni, discettando di succulenza che trova corrispondenza contraria ed equilibratice nell’alcoolicità. Lo vedremo man mano.
Ci piace invece introdurci ad un mondo in cui, di nuovo, tradizione ed innovazione si completano mirabilmente. Constatiamo infatti che, come tante volte abbiamo sentito dire da uno dei nostri maestri, “una casalinga veneziana sapeva benissimo che l’asprezza del fegato doveva essere mitigata dalla dolcezza della cipolla”, e che mentre l’amarognolo veniva temperato allo stesso tempo poteva essere esaltato.
Senza aver studiato scienze culinarie o divorato manuali di chimica dell’alimentazione, la tradizione le attestava una prova di bontà; la natura poi le donava la particolare cipolla bianca di Chioggia.
Le odierne discendenti di quella matrona potranno ora giovarsi di letture e di corsi specifici, potranno magari esercitarsi ripercorrendo puntate e puntate di chef divenuti star televisive. Eppure, si muoveranno similmente nella stessa comprensione della realtà che faceva esclamare ad un autore biblico, nel contemplare la creazione divina:
“Quanto sono amabili tutte le sue opere! E appena una scintilla se ne può osservare…Tutte le cose sono a due a due, una di fronte all’altra, egli non ha fatto nulla d’incompleto. L’una conferma i pregi dell’altra: chi si sazierà di contemplare la sua gloria?” (Sap 42,22-25).
Ebbene, noi di Vino Sapiens, un pò insaziabili lo siamo, e sappiamo che una cosa bella e buona è un valore, ma una cosa bella e buona vissuta ed assaporata insieme ad un’altra, altrettanto buona, è ancora meglio. Per di più, gustate appaiate anche le cose più spigolose e forti assumono nuovi ed inaspettati sapori.
Ma perché poi limitare questa arte del ben gustare al cibo e al vino. Non si possono abbinare emozioni o stati d’animo? E’ celebre e leggendaria la frase che avrebbe pronunciato madame Bollinger:
“Bevo il mio Champagne quando sono felice e quando sono triste. A volte lo bevo quando sono sola. Quando ho compagnia lo considero obbligatorio. Ne sorseggio un po’ quando non ho fame e lo bevo quando ne ho. A parte questo, non lo tocco mai − a meno che non abbia sete”.
Ben al di là di questa sintesi iperbolica, perché davvero non convincersi della ragionevolezza nell’imparare a confermare a vicenda i pregi di bellezze differenti? Affiancare il giusto calice di vino ad una lettura, non aiuterebbe ad addentrarsi con più trasporto nella trama narrativa? Mentre i sensi sono tutti rivolti a percepire una buona musica, offrire all’odorato e al gusto gli effluvi di un vino scelto perché capace di evocare altre emozioni o ricordi sarebbe dissonante o, al contrario, permetterebbe di apprezzare meglio e l’una e l’altro, la musica e il vino?
In una visione corretta, ma forse limitante, l’abbinamento eno-gastronomico viene inteso in senso tecnico ed edonistico.
Nel primo caso l’equilibrarsi delle diverse e contrastanti sensazioni gustative di cibo e vino permette una sorta di reset del palato, favorendo e invitando ad un nuovo boccone ed un ulteriore sorso.
Così ad ogni menù di successo si affianca la valida consulenza di un sommelier, perché né il piatto né il calice stanchino i commensali. Oltre a questioni tecniche e di fisiologia del palato, è evidente l’aspetto edonistico dell’abbinamento: la piacevolezza a tavola è fonte di benessere e di soddisfazione.
Quanto al piacere edonistico, in gioco c’è ancora dell’altro; “una cosa conferma i pregi dell’altra”, si tratta di comunione armonica, di servizio reciproco delle cose, di un’estetica della collaborazione e della sinergia, che amplifica il piacere e lo dilata.
Paradossalmente, i contrasti, in una più profonda visione dell’abbinamento, sono cercati e giocati insieme. Sapori forti, che in sè giudicheremmo troppo estremi, appaiati ad altrettanti gusti al limite del consentito, si rivelano combinati artisticamente.
Non mera tecnica, né solo edonismo, raffinato che sia: noi vorremmo avviarci, insieme, abbinati alle esperienze di tanti, appunto verso un’arte, una cultura dell’armonia e della bellezza, diremo quasi una sorta di contemplazione.
Per comporre le quali, non si potrà di certo partire da sapori banali e “piacioni”, o da fonti emozionali scontate e ripetitive. Un libro scritto per piacere a tutti, una canzone orecchiabile fino alla noia, un quadro immediato e tutto svelato, non necessitano di altro per essere graditi.
La semplicità della fruizione è proporzionale tuttavia alla persistenza e all’intensità emotiva coinvolte. Fenomeni perfino respingenti, invece, accompagnati dal giusto sfondo potranno risultare in una sintesi perfetta di splendore sapiente e inaspettato.
Ci rimarrà la questione di quale sia lo sfondo e quale il protagonista. Sarà più gustoso leggere un libro sorseggiando un calice, o piuttosto sorseggiare un calice leggendo un libro? Dovremmo scegliere un cibo pensando al vino che ho in mente, ovvero cercare il miglior vino possibile per il piatto che si sta preparando?
Magari la risposta non sarà sempre la stessa, o sarà spiazzante, facendoci scoprire trame misteriose nel reale. Di sicuro, ci divertiremo e si affinerà sempre più la nostra sensibilità.
E, di nuovo, forse, cambierà la nostra prospettiva. D’altronde, davvero sapiens era anche chi quasi un millennio fa disse:
“ciò che per me prima era amaro, ora mi è dolce”
…Sarà un caso che quello che è stato riconosciuto come il miglior ristorante del mondo si chiami Osteria francescana? https://osteriafrancescana.it/it/
Se avete dato già un’occhiata ai nostri prodotti o avete letto qualcuno fra gli articoli del blog, potrete aver inteso che l’enoteca Vino Sapiens vorrebbe distinguersi per originalità. Eppure, lo diciamo da subito, non siamo affatto snob. Ossia non disdegniamo per principio alcun vino fra i più celebrati e rinomati (purché siano davvero buoni, ben inteso), né ci rifiutiamo di consultare ed usare le guide di settore. Ancor più, non siamo contro o anti rispetto a categorie di vini, nemmeno quelle non vicine ai nostri gusti.
Non intendiamo demonizzare vini convenzionali, o disprezzare quelli biodinamici, e così via; nemmeno ci schieriamo a favore di una parte a discapito dell’altra. Chiarito questo, ribadiamo che da noi vini generalmente noti e apprezzati da tutti difficilmente li troverete. Non perché non ci piacciano, ma perché si possono trovare dappertutto!
Sono a disposizione di tutti, almeno per chi voglia spendere qualcosa in più per una bottiglia di vino. Il nostro lavoro, invece, vuole essere una guida in spazi poco battuti e frequentati. Coinvolgendoci in prima persona, facendo valere anche per noi questo principio, vorremmo che i nostri clienti potessero esclamare all’assaggio “buono, non lo conoscevo!”. Ancora di più: “buono, non lo immaginavo!”.
L’universo del vino è infatti così vasto e ricco che pare davvero un peccato fermarsi alle quattro denominazioni più pubblicizzate ed ormai considerate come must. Ammesso che fama corrisponda a qualità diffusa, lasciamo che altri percorrano vie rassicuranti e confortevoli. A noi piace la scoperta e l’inconsueto, pur non essendo stravaganti né anarchici.
Quindi, non un’enoteca generalista, nei cui scaffali giacciano bottiglie fatte apposta per piacere senza distinzione e rispondere ad un mercato che rincorre vecchie mode o nuove imitazioni. Vorremmo invece aiutare il cliente a scoprire nuove strade e nuovi territori, dopo averli sperimentati prima noi.
Non crediamo sia lungimirante fare proprio, a priori, l’intero catalogo di agenzie di distribuzione che zelanti commerciali di solito propongono tout court. Non perché non ci si fidi di selezionatori che sicuramente ne sanno più di noi: il fatto è che ci piace troppo girare per vigne e cantine, ascoltare dal vivo i produttori e le loro storie visionarie.
L’Italia del vino rappresenta una bellezza troppo affascinante per non frequentarla in ogni angolo, accesi di passione per Bacco e pure per amor patrio: “La vigna, mi dissi, è la pianta che può simboleggiare l’Italia.
Non solo l’Italia, tra tutti i paesi della terra, è quello che produce la maggiore quantità di vino; ma non c’è nessuna delle nostre regioni che non ne produca. Lasciar decadere questa tradizione, perdere questo patrimonio millenario, vorrebbe dire, molto probabilmente, cominciare a sparire come nazione” (Mario Soldati, Vino al Vino. Alla ricerca dei vini genuini, rist. Milano 2006, 179).
In un frangente storico in cui ci vogliono abituare ad avere tutto a casa nostra, ordinando on line e attendendo il corriere comodamente sul divano, Vino Sapiens vorrebbe al contrario invogliare a mettersi in viaggio.
Sarebbe davvero unico che il primo incontro con un’etichetta “avvenisse nel luogo di produzione o comunque vicino alle vigne, dentro un paesaggio, una storia, una gastronomia” (C. Langone, Dei miei vini estremi. Un ebbro viaggio in Italia, Venezia 2019, 15). Molte volte abbiamo provato questa emozione, e vorremmo condividerla.
Acquistare una bottiglia da noi avrà questa garanzia: vini peculiari accompagnati da una storia, che costruiremo giorno per giorno. Andando assieme ai nostri amici in viaggi organizzati, raccontando vite e viti, intessendo relazioni fra produttori e clienti, narrando di climi, profumi, paesaggi. Cercheremo di non tediarvi con fredde schede organolettiche, né posteremo foto un pò artificiali da wine instagrammer.
Avremo, sì, anche noi l’e-commerce, ma nell’ambito di una comunità di appassionati fedeli, con cui condivideremo cultura e piacevolezza di bevute.
E non vi preoccupate se capiterà che il nostro punto vendita sarà talvolta chiuso anche in giorni consueti all’apertura: saremo in viaggio, sulle tracce di vini con personalità e delle persone che li fanno. Ma torneremo! Magari non proprio con i grappoli d’uva su stanghe di legno come i biblici esploratori tornati dalla Terra Promessa, ma con lo stesso entusiasmo e con sicuro buon bottino.
E brinderemo insieme!