Dovevamo immaginarcelo. Ci doveva pur essere qualcosa di straordinario, nei lieviti flor, che ce li ha fatti piacere fin dal primo incontro.
Studiandoli un pochino, siamo rimasti incuriositi dalla loro parabola vitale: laddove i comuni ceppi arrestano il loro metabolismo e muoiono (e in questo loro dissolversi continuano però ad impreziosire il vino di preziose sostanze), essi, invece, pare che risorgano. Da condizioni proibitive, per assenza di nutrimento e saturazione di etanolo, per loro indigesto e nocivo, riescono a reagire, mostrando una stupefacente capacità di adattamento. Il loro metabolismo subisce un impressionante cambiamento: si nutrono di ciò che fino a poco prima per loro era veleno; ancora, ciò che rifuggivano – l’ossigeno – ora diventa loro utile e prezioso.
Così da anaerobi diventano bravi a lavorare in ambiente aerobico, fornendo al vino una protezione e allo stesso tempo una singolare ed unica forma di mediazione nei confronti dell’aria, per la stragrande maggioranza dei vini uno spauracchio fra i più temuti. Accade loro una vera e propria conversione. Hanno questa peculiare ed invidiabile capacità: non sono irrigiditi nei loro schemi, si adattano, accorgendosi di quanto accade intorno a loro, capaci di cogliere comunque il bene dalle situazioni in cui vivono.
Prima, nel mosto, mangiano il fruttosio e le altre sostanze azotate, poi, man mano che il mosto si trasforma in vino (e sono loro che compiono questo miracolo), capiscono che è giunto il momento di cambiare. Cominciano così a sintetizzare l’etanolo. A questo stadio – ed è un’altra cosa interessante e che ci affascina – cominciano ad intrattenere una nuova vita sociale. Forse intuiscono che la difesa e la reazione al pericolo dovuto all’eccessiva quantità di alcool che si sta formando, come prodotto di scarto del loro lavoro fermentativo, potrà essere efficace solo se i singoli individui si assoceranno e si metteranno insieme. Ecco che questi lieviti formano delle catenelle fra loro, aiutandosi l’uno con l’altro, se così possiamo dire.
C’è un ulteriore aspetto, curioso, e divertente. Anch’esso ci trova accomunati e ci rende questi lieviti flor ancora più simpatici. A loro, come a noi, piacciono le bollicine! Sì, proprio così. In recenti studi, alcuni ricercatori hanno mostrato come la particolare mutazione al gene flo 11 di questi lieviti geniali (sì, lo possiamo dire) incide nella sintesi di una proteina della loro membrana cellulare. Al termine della fermentazione alcolica, tale proteina conferisce alle loro cellule una peculiare idrofobicità. Così da una fase pelagica, profonda, immersa nella massa del liquido, cercano di passare ad una fase superficiale, sulla parte superiore della botte o del recipiente.
Per trasferirvisi, i lieviti flor si agganciano alle bolle di anidride carbonica, che per loro fungono da vettore. Nel loro viaggio verso l’alto e verso l’aria presente nelle botti scolme, i flor sono trasportati dalle bollicine che tanto apprezziamo nei vini spumanti. Anch’essi dunque amano, a loro modo, l’effervescenza. E noi con loro, e da essi siamo sempre di più affascinati.
All’origine di una straordinaria bottiglia di vino ci possono essere occasioni le più varie. Da tradizioni secolari a sfide di vignaioli ed enologi innovatori, da fondati e solidi studi geo-morfologici del terroir a mode volubili di mercato, e tanto altro. La storia del vin de glace a base prie blanc valdostano evoca, piuttosto, vicende drammatiche e singolari: un chiaroscuro davvero avvincente, a dimostrare l’eroico ingegno umano e la sua affascinante adattabilità.
Non facciamo qui una sintesi ampelografica del vitigno in questione (per un approfondimento, cf. qui) Ne ricordiamo solamente il particolare ciclo vegetativo e la sua rara giacitura. Piantata intorno ai mille metri, la vigna non può permettersi il lusso di arrivare molto in là con la maturazione dei grappoli. Il confronto con condizioni metereologiche sfavorevoli sarebbe troppo rischioso, se la vendemmia si inoltrasse troppo avanti, a tardo autunno.
Questa temibile possibilità divenne invero tragica realtà nel 1816. L’anno precedente, la gigantesca eruzione del vulcano indonesiano Tambora, alterò in modo significativo il clima e le temperature dell’intero pianeta. La quantità, e la densità, di ceneri immesse nell’atmosfera oscurarono il sole, per così dire, alterando il consueto irraggiamento della terra. Anche in Europa, e, segnatamente, in Val d’Aosta. Ci sono testimonianze scritte, nel Castello di La Salle, che ricordano la vendemmia del millesimo 1816, forzatamente tardiva. Una maturazione che non arrivava mai, a conseguenza degli stravolgimenti sopra ricordati. Così la raccolta delle uve avvenne a fine novembre.
Ebbene, proprio dalla lettura di quelle tracce storiche, ai viticoltori della Cave Mont Blanc venne l’idea di provare la vinificazione di un icewine. Da quelle parti, più propriamente, si sarebbe chiamato vin de glace. Il dato essenziale è che gli acini, al momento della raccolta, debbano essere ghiacciati, in modo che si possa separare naturalmente la parte acquosa del chicco, riuscendo a concentrare zuccheri, polifenoli e altri composti. L’unicità e la preziosità del mosto è proporzionale alla suggestione (e alla fatica) della vendemmia. Avviene prima dell’alba, al chiaro di luna, nelle ore più fredde, appunto per portare in cantina grappoli ghiacciati. Una sfida che ogni anno si rinnova. Ma il coraggio e l’energia non mancano al giovane enologo della Cantina, Nicola del Negro, né a ciascuna delle 80 famiglie che coltivano i singoli vigneti, dai più grandi appezzamenti ai pochi filari, tutti preziosi. D’altronde, la società cooperativa ha raccolto l’eredità di sapere e di intuizioni che ispirarono la lungimiranza dell’abbé Bougeat.
Altro curioso paradosso: il vino del parroco di Morgex era uno dei più amati da Gino Veronelli. L’anarchico e il libertino sapeva riconosceva ammirato la qualità e la “razza” del prie blanc, allora allevato quasi solamente dal curato. Il quale ebbe il merito di tramandare passione e pratiche viticole (per ulteriori curiosità e aneddoti, cf. qui).
Sotto la guida di Nicola, la complessità organolettica dello Chau de Lune viene impreziosita dall’affinamento di almeno 12 mesi in botti dalla varia caratura e dall’assemblaggio di doghe di diversi legni. Rovere, melo, pero e altri legni ma non deve mancare una doga di ginepro. L’affinamento avviene poi in ossidazione, cioè con un contatto importante con l’ossigeno. Nella lavorazione di questo vino prettamente alpino sono curiosamente evocati gli stili di affinamento in botti scolme, tipici della Malvasia di Bosa o della Vernaccia di Oristano, o ancora del Marsala.
Alpi e mediterraneo, dunque! D’altronde, quando, anni fa, l’allora presidente della Cantina, Mauro Jaccod, ci parlò per la prima volta dello Chau de Lune ci indicò come abbinamento par excellence quello con i cannoli siciliani! Anche il suo giovane successore, Nicolas Bovard, ci ha testimoniato, entusiasta, l’eccellenza di questa etichetta: lo straordinario contenuto zuccherino, ben bilanciato da un’altrettanto notevole quantitativo di acidità tartarica.
L’incontro con Chau de Lune è un’esperienza indimenticabile. In una parola: energia. Ma perché usarne una sola quando siamo al cospetto di un vino che si fa racconto delle gesta che lo hanno portato fin dentro al nostro calice. La narrazione inizia già dal primo sguardo.
Brillanti riflessi oro zecchino sembrano ricordare il crogiolo che lo ha forgiato. Il bouquet olfattivo sussurra i legni utilizzati per l’affinamento che lo hanno contenuto: le doghe piegate dall’acqua e solo parzialmente dalla leggera tostatura. Profumi di mediterraneo, dicevamo, dove il pomodoro concentrato, lo zenzero candito, il cappero in salamoia, sono le potenti note di soprano sostenute da un clamoroso coro di erbe aromatiche e officinali.
E poi l’assaggio… da bere o forse più da mordere. Tutto il travaglio, le cure, la fatica, l’attesa, la speranza… In una parola, l’umanità che ha portato dei grappoli gelati in cantina e li ha trasformati in qualcosa di più, è qui che si percepisce: bagnando le labbra nella meraviglia. Un vino da dessert certamente, ma è il sale il vero protagonista. Lo è sempre, quando si è al cospetto di un grande vino dolce.