All’origine di una straordinaria bottiglia di vino ci possono essere occasioni le più varie. Da tradizioni secolari a sfide di vignaioli ed enologi innovatori, da fondati e solidi studi geo-morfologici del terroir a mode volubili di mercato, e tanto altro. La storia del vin de glace a base prie blanc valdostano evoca, piuttosto, vicende drammatiche e singolari: un chiaroscuro davvero avvincente, a dimostrare l’eroico ingegno umano e la sua affascinante adattabilità.
Non facciamo qui una sintesi ampelografica del vitigno in questione (per un approfondimento, cf. qui) Ne ricordiamo solamente il particolare ciclo vegetativo e la sua rara giacitura. Piantata intorno ai mille metri, la vigna non può permettersi il lusso di arrivare molto in là con la maturazione dei grappoli. Il confronto con condizioni metereologiche sfavorevoli sarebbe troppo rischioso, se la vendemmia si inoltrasse troppo avanti, a tardo autunno.
Questa temibile possibilità divenne invero tragica realtà nel 1816. L’anno precedente, la gigantesca eruzione del vulcano indonesiano Tambora, alterò in modo significativo il clima e le temperature dell’intero pianeta. La quantità, e la densità, di ceneri immesse nell’atmosfera oscurarono il sole, per così dire, alterando il consueto irraggiamento della terra. Anche in Europa, e, segnatamente, in Val d’Aosta. Ci sono testimonianze scritte, nel Castello di La Salle, che ricordano la vendemmia del millesimo 1816, forzatamente tardiva. Una maturazione che non arrivava mai, a conseguenza degli stravolgimenti sopra ricordati. Così la raccolta delle uve avvenne a fine novembre.
Ebbene, proprio dalla lettura di quelle tracce storiche, ai viticoltori della Cave Mont Blanc venne l’idea di provare la vinificazione di un icewine. Da quelle parti, più propriamente, si sarebbe chiamato vin de glace. Il dato essenziale è che gli acini, al momento della raccolta, debbano essere ghiacciati, in modo che si possa separare naturalmente la parte acquosa del chicco, riuscendo a concentrare zuccheri, polifenoli e altri composti. L’unicità e la preziosità del mosto è proporzionale alla suggestione (e alla fatica) della vendemmia. Avviene prima dell’alba, al chiaro di luna, nelle ore più fredde, appunto per portare in cantina grappoli ghiacciati. Una sfida che ogni anno si rinnova. Ma il coraggio e l’energia non mancano al giovane enologo della Cantina, Nicola del Negro, né a ciascuna delle 80 famiglie che coltivano i singoli vigneti, dai più grandi appezzamenti ai pochi filari, tutti preziosi. D’altronde, la società cooperativa ha raccolto l’eredità di sapere e di intuizioni che ispirarono la lungimiranza dell’abbé Bougeat.
Altro curioso paradosso: il vino del parroco di Morgex era uno dei più amati da Gino Veronelli. L’anarchico e il libertino sapeva riconosceva ammirato la qualità e la “razza” del prie blanc, allora allevato quasi solamente dal curato. Il quale ebbe il merito di tramandare passione e pratiche viticole (per ulteriori curiosità e aneddoti, cf. qui).
Sotto la guida di Nicola, la complessità organolettica dello Chau de Lune viene impreziosita dall’affinamento di almeno 12 mesi in botti dalla varia caratura e dall’assemblaggio di doghe di diversi legni. Rovere, melo, pero e altri legni ma non deve mancare una doga di ginepro. L’affinamento avviene poi in ossidazione, cioè con un contatto importante con l’ossigeno. Nella lavorazione di questo vino prettamente alpino sono curiosamente evocati gli stili di affinamento in botti scolme, tipici della Malvasia di Bosa o della Vernaccia di Oristano, o ancora del Marsala.
Alpi e mediterraneo, dunque! D’altronde, quando, anni fa, l’allora presidente della Cantina, Mauro Jaccod, ci parlò per la prima volta dello Chau de Lune ci indicò come abbinamento par excellence quello con i cannoli siciliani! Anche il suo giovane successore, Nicolas Bovard, ci ha testimoniato, entusiasta, l’eccellenza di questa etichetta: lo straordinario contenuto zuccherino, ben bilanciato da un’altrettanto notevole quantitativo di acidità tartarica.
L’incontro con Chau de Lune è un’esperienza indimenticabile. In una parola: energia. Ma perché usarne una sola quando siamo al cospetto di un vino che si fa racconto delle gesta che lo hanno portato fin dentro al nostro calice. La narrazione inizia già dal primo sguardo.
Brillanti riflessi oro zecchino sembrano ricordare il crogiolo che lo ha forgiato. Il bouquet olfattivo sussurra i legni utilizzati per l’affinamento che lo hanno contenuto: le doghe piegate dall’acqua e solo parzialmente dalla leggera tostatura. Profumi di mediterraneo, dicevamo, dove il pomodoro concentrato, lo zenzero candito, il cappero in salamoia, sono le potenti note di soprano sostenute da un clamoroso coro di erbe aromatiche e officinali.
E poi l’assaggio… da bere o forse più da mordere. Tutto il travaglio, le cure, la fatica, l’attesa, la speranza… In una parola, l’umanità che ha portato dei grappoli gelati in cantina e li ha trasformati in qualcosa di più, è qui che si percepisce: bagnando le labbra nella meraviglia. Un vino da dessert certamente, ma è il sale il vero protagonista. Lo è sempre, quando si è al cospetto di un grande vino dolce.
I pranzi e le cene del periodo natalizio sono davvero speciali. Sottolineiamo qui solo uno degli aspetti d’eccezione, e quanto sarebbe bello fosse invece la norma! Ossia la buona abitudine di stappare una nuova e diversa bottiglia a fine pasto, per accompagnare il dolce. Non stiamo parlando dell’orrenda accoppiata spumante, foss’anche champagne, e panettone (a meno che la bottiglia non sia un moscato d’Asti, dolce). Ci riferiamo piuttosto alla straordinaria possibilità di scegliere fra un’ampissima varietà di “vini dolci”. Durante le feste diventa davvero piacevole intrattenersi a lungo a tavola, continuando, fra una chiacchierata, una tombolata e una partita a carte, ad assaggiare delizie, dolciumi, frutta secca, e calici adeguati. Forse proprio perché il dopo pranzo (o il dopo cena) è più dilatato del solito, non si risparmia sull’ulteriore bottiglia, quella appunto di vino dolce. Che poi dire vino dolce sembra quasi significare poco, proprio perché significa troppo. Grande è la varietà della categoria racchiusa assai semplicemente con “dolce”!
Il Torcolato di Breganze, questa la bottiglia che abbiamo stappato a Natale, appartiene storicamente all’ampio mondo del vin santo. Per un’importante ricognizione non possiamo non rimandare ad un articolo memorabile del compianto Daniele Maestri (cf. Santi e Vin santi, in Bibenda 73, 8-21: qui). In esso si ha chiara evidenza della straordinaria ricchezza enologica dell’Italia, il cui patrimonio di vini dolci non può davvero essere paragonato con altri, sebbene i nettari dei cugini francesi, ad esempio, spuntino prezzi ben più alti, almeno per i sauternes. Di fatto, un vin santo, o comunque un vino da appassimento è un vino antieconomico per eccellenza. Troppo bassa è la resa rispetto alla quantità iniziale dell’uva. Si tratta dunque di una vera reliquia, del poco che rimane dopo un lungo processo di disidratazione e di affinamento. Un nobile vestigio di maestria e di cultura, che Maestri pensava doversi legare al sistema della mezzadria: solo una continuità di famiglie per decenni e decenni al servizio della stessa proprietà poteva conservare sensibilità e tradizioni, misteriose e alchemiche. Rarefazioni, fermentazioni lunghe e lente, sfumature aromatiche preziose e magiche…era tutto troppo imprevedibile perché potesse essere dominato da logiche estrinseche, da grandi mercati. Il vin santo era per lo più questione del singolo vignaiolo, che conservava gelosamente i suoi segreti e i suoi caratelli, per sé e per la sua famiglia, a celebrarne momenti particolari.
Per la verità, c’è da dire che nel caso del torcolato ci fu lo zampino del leone di San Marco. Nella diffusione, in quella zona del Veneto, della misteriosa uva vespaiola, un ruolo lo ha avuto la Serenissima Repubblica di Venezia, proprio quando cominciava a scorgere più di una nuvola all’orizzonte. La progressiva perdita dei domini oltremare, per l’ascesa degli Ottomani, significava l’impossibilità di approvvigionarsi del vino d’oriente, dolce, solare e alcolico, che tanta fortuna fece per i mercanti veneziani. Si cominciò quindi a guardare all’interiore, disboscando colline e piantando vigne, diffondendo malvasia e pure vespaiola. Gli acini particolarmente ricchi di zuccheri parevano adatti a sostituire quelli ormai perduti di Candia e della Grecia. Ma quei pochi acini – si preferiscono di solito grappoli spargoli – proprio perché dal tenore zucchero sopra la norma, sono da contendere alle vespe. Ghiottissime fino a rovinare tutta la raccolta, in annate infauste. Pare che proprio loro abbiano dato, sottile ironia, il nome all’uva. Ad oggi parentele e origini della varietà breganzesi sono di fatto sconosciute.
Se, dicevamo, il torcolato può essere ricondotto alla grande famiglia dei vin santi, la sua particolarità risalta anche nel nome. La più diffusa delle spiegazioni lo fa derivare dal veneto intorcola’, attorcigliare, in riferimento all’antico uso di legare i grappoli, con anelli di spago, appendendoli tutt’intorno ad uno spago centrale. I rosoli, così venivano chiamati questa sorta di festoni di grappoli, venivano appesi alle soffitte delle case coloniche breganzesi, per esporre al calore i grappoli in appassimento insieme alla ventilazione sufficiente a preservarli da spiacevoli muffe. Vi è chi invece fa derivare il nome al fatto che per stillare liquido dagli acini appassiti occorra un’importante lavoro di torchio (in latino torculum). Comunque sia, l’appassimento lo si faceva terminare prima di Pasqua, da cui uno degli appellativi con il quale il torcolato è citato in antiche fonti: “il dolcissimo pasquale”
Così recita un poemetto pubblicato a Venezia nel 1754, che, fra l’altro, è la prima fonte in cui viene citato esplicitamente anche il prosecco (cf. qui; l’intero testo, per curiosità, è disponibile qui).
Non sorprenderà che oggi, almeno per la stragrande maggioranza dell’uva destinata al torcolato, non si appendano i rosoli, ma si adoperino più pratiche ed efficaci cassettine, per gestire meglio l’appassimento. Eppure, nella cantina Miotti si vinifica ancora con i ritmi lenti e dilatati della tradizione. Se l’odierno disciplinare impone la pigiatura entro il febbraio successivo alla vendemmia, rimane comunque molto tempo per la fermentazione protratta senza artifici e per l’affinamento in acciaio e in bottiglia. In bottiglia arriva un vino dolce sì, ma assolutamente equilibrato. La collina di Santa Lucia, zona fra le più vocate della fascia pedemontana che va da Thiene a fino a Bassano, conferisce freschezza di acidità, che bilancia la dolcezza. Così sorseggiamo un vino dolce che non è mai stucchevole. Allora, senza attendere le prossime feste pasquali, si possono azzardare intriganti abbinamenti. Oltre a formaggi, anche con il foie gras…e aspettiamo anche i vostri suggerimenti!
Infine, per una sintetica descrizione organolettica del vino e per altre informazioni, clicca qui.
Qualcosa si muove. Anche se il main-stream di settore fatica ad accorgersene, una incipiente novità si fa strada. Nei mesi passati sono stati celebrati diversi convegni dedicati al tema (cf., ad es., qui, la registrazione di una giornata di studio intorno ai vini da uve piwi), e non è più così infrequente che si possano intravedere etichette del genere nella comunicazione di settore.
Usiamo qui non a caso, anche se non del tutto propriamente, la parola genere, perché vogliamo argomentare di classificazione botanica: stiamo parlando di nuove varietà ottenute da incroci, almeno all’origine, fra diverse specie di viti, l’europea e altre, come fra diverse sottospecie, sativa e silvestris (qui un’introduzione generale al tema).
Ebbene, ormai si è appurato, con il corredo di dati numerici certificati, che l’impatto ambientale e la sostenibilità, agronomica, aziendale e sociale, è assolutamente a favore dell’allevamento di questi nuovi vitigni. Siamo invece all’inizio del passo successivo: provare, e convincere, che oltre ad essere sostenibili, iper-biologici, puliti, questi vini siano anche, e soprattutto, buoni. Ci si inizia a muovere quindi nel campo della qualità, al livello dell’eccellenza.
Ci pare di aver capito che la tematica sia più avvertita dai viticoltori, dal mondo dei ricercatori e dei vivaisti, e dalla ricerca accademica; agli appassionati e ai consumatori l’interesse giunge di riflesso. Ma non si tratta solo di differenze sociologiche. Forse ancora più rilevante è la differenza geografica. Del resto, non c’è da stupirsi che laddove il clima sia in genere più piovoso e umido, là saranno più numerosi i viticoltori interessati a varietà che non necessitano di numerosi trattamenti di fitosanitari. In effetti, al nord Italia i vini da varietà piwi sono entrati anche nel portfolio di grandi agenzie di distribuzione. Mentre al centro e al sud questi nuovi vitigni sono ancora fuori dagli elenchi di quelli autorizzati per la vinificazione. E’ pur vero che le odierne uve piwi sono il risultato di ricerche e sperimentazioni in area germanica e svizzera. I primi contatti italiani sono stati con il Trentino Alto Adige e Veneto. Ora anche in Lombardia sono possibili, e ammessi dal legislatore, l’allevamento e la conseguente produzione di vino. Insomma, il dado è tratto, ma il Rubicone non è stato ancora attraversato.
Nel corso dei nostri viaggi alla scoperta di cantine ci è capitato di visitare la Fondazione E. Mach, di San Michele all’Adige (Tn). Questo centro di ricerca è un’eccellenza e un riferimento, nel settore dell’ibridazione e della sperimentazione di nuove varietà. Si è instaurata subito una relazione di confidenza e di reciproca stima con il Direttore della sezione di miglioramento genetico della vite, durante la visita in laboratorio, in serra e nei vigneti sperimentali. Così, ci è parso immediatamente evidente che fosse lui, il prof. Marco Stefanini, la persona giusta da contattare quando alcuni dirigenti del CNR di Tor Vergata ci chiesero se la viticoltura avesse qualcosa di nuovo da dire riguardo al tema della sostenibilità. Con la discrezione di chi sa di muoversi in terreni non abitualmente frequentati, Vino Sapiens ha potuto così contribuire ad un evento peculiare: un convegno riservato al personale interno al Centro, con diversi focus, fra i quali trovava spazio l’agronomia e l’enologia. Il prof. Marco Stefanini ha potuto così illustrare come la sostenibilità ambientale e sociale siano declinate nella prospettiva di una viticoltura moderna e innovativa. Fra gli altri, un dato misurabile, l’impronta carbonica, dovrebbe perlomeno abbattere la coltre di supponenti pregiudizi, lasciando qualche interrogativo a scalfire la falsa tradizione, che si oppone alle nuove varietà.
Fra i partecipanti alla conferenza, perlopiù ricercatori, abituati al passaggio dalle ipotesi teoretiche alla verifica sperimentale, l’effettiva bontà di questo nuovo approccio alla viticoltura ha potuto quindi essere presentata in un excursus storico-scientifico, con dati alla mano e schede illustrative. Ma anche la controprova del piacere edonistico all’assaggio è stata ampiamente superata. E’ stata cura di Vino Sapiens servire e guidare all’assaggio di tre campioni di vini da uve piwi, offerti dal Consorzio Piwi Alto Adige.
Vini dalla pulizia e dal nitore impressionanti; colpiscono già dai colori, brillanti e luminosi. Sentori complessi e netti. Nella loro diversità riflettono veracemente i loro territori, restituendone profumi e mineralità. Assolutamente gastronomici, dall’interessante e piacevole trama tannica, che li rende fruibili con svariati abbinamenti. Insomma, esemplari riuscitissimi di adattamento fra nuove varietà e terroir di antichissima tradizione viticola.
Se il convegno presso l’Area di Ricerca del CNR di Tor Vergata era a porte chiuse, rivolto esclusivamente ai ricercatori accreditati, l’11 novembre ci sarà un’ulteriore ed importante occasione, questa volta aperta al pubblico di appassionati. Il Prof. Marco Stefanini sarà ospite di Vino Sapiens, nella sala di degustazione, per guidare una masterclass sulle varietà resistenti, seguita dalla degustazione di sei assaggi di vini da uve piwi di diversi territori.
David Landini ha un suo modo di vedere le cose.
Eravamo curiosi di conoscere l’artefice di questo vino così straordinario e misterioso. Così abbiamo deciso di aggiungere una tappa al nostro bellissimo viaggio già pieno di appuntamenti con vini e persone da incontrare e da ritrovare. Sapevamo che sarebbe stata un’impresa tutt’altro che semplice. Ma l’attrazione e la curiosità erano troppe per non provare a cogliere l’occasione.
Era curioso anche lui, secondo me, di sapere chi fossero quei due squinternati che ti chiamano così all’ultimo momento durante un tragitto in macchina – direzione Puglia – con il vivavoce attivato per sbaglio e due ragazzini in sottofondo che cantano a squarciagola. Il vivavoce poi l’abbiam tolto, ma ormai era troppo tardi…
Lasciamo i bambini dai nonni e ci dirigiamo in quel di Pisa, Palaia, tra boschi fitti di querce e zone interamente dedicate alla lavorazione del tartufo.
Ci accolgono David insieme ad Alessia, la responsabile amministrativa, e ci introducono nella sala degustazioni dove avevano allestito uno spazio pieno di lavagne, matite colorate, fogli da disegno, piccoli sgabelli e giocattoli!
“Dove sono i bambini? Pensavo li avreste portati con voi!”. Eh sì, al telefono aveva sentito le loro voci, quindi ha pensato bene di preparare un’accoglienza su misura.
Perché David Landini ha un suo modo di vedere le cose! Il suo sguardo va oltre.
Lui conosce il mondo delle grandi aziende, di quelle più famose, perché ci ha lavorato come winemaker per tanti anni e tutt’oggi si occupa della direzione della ben nota Villa Saletta, in Toscana.
Ma David Landini ha un suo modo di vedere le cose: lui le vede con gli occhi dei suoi figli, che hanno provveduto personalmente alla prima “stesura” dell’etichetta del Viaggio di Landò. Poi il signor Sergio Staino ha fatto il resto, interpretando con il suo stile inconfondibile e con gli ormai celebri personaggi, Bobo e Bibi, il disegno dei bimbi di David, e cogliendo lo spirito fanciullesco e sognatore del loro papà: un uomo che ama le cose semplici, fatte con sapienza e cuore.
Così è il tempo di chi si accosta alla compagnia dei suoi vini: gioviale, saporito e appassionante. E durante tutto il viaggio, non importa quanto duri, continui a chiederti: “ma come fa ad essere così buono?”.
Perché più che un vino è una pozione magica e giocosa. Come quando i nonni incantano i bambini, accendendo i loro sguardi con le storie avvincenti di un’epoca che fu. Storie di un tempo antico che ti incatena al presente. Perché è lì che vorresti rimanere per sempre, ad ascoltare quelle avventure raccontate lentamente, da una voce calma e accogliente che non ha fretta di andar via.
E così David unisce saperi antichi e tecniche attuali, conducendo affabilmente coloro che vorranno percorrere insieme ai suoi vini una parte del loro viaggio.
Con qualche “fermata” nel suo mondo, un luogo dal sapore meraviglioso.
Il Viaggio di Landò – Prima Fermata è certamente tra i migliori vini rossi del nostro tempo.
Pochissime le bottiglie prodotte da David, circa 3.000, tutte numerate. Una vera rarità, difficilissimo da trovare anche negli scaffali delle enoteche più prestigiose.
A base di uve Canaiolo in purezza, vitigno storicamente utilizzato per contribuire al blend del Chianti, questo vino regala tantissime emozioni già al primo assaggio.
Sarà perché il vigneto ha novant’anni, e quando una vite raggiunge quell’età produce pochissima uva, ma di qualità eccellente. O sarà perché David lo realizza con l’idea ben precisa di esaltare il terroir interpretandolo secondo la sua personalità, quella di un uomo appassionato e sapiente che sa unire tradizione e innovazione. O probabilmente tutti questi elementi insieme sono gli ingredienti della magia del Viaggio di Landò – Prima Fermata.
Al calice si presenta di un meraviglioso color rubino. Il bouquet olfattivo è ampio, con note di frutti rossi e fiori che cedono il passo, dopo qualche oscillazione del calice, ai sentori di macchia mediterranea, con un bel parterre di erbe aromatiche. Al palato è goloso e franco, colpisce il tannino setoso ed estremamente elegante, che accompagna perfettamente la salivazione indotta dai sali minerali. Ottima corrispondenza gusto-olfattiva, sembra a tratti di mangiare delle ciliegie appena colte.
L’aspetto che più di tutti lo rende grande è che, proprio come accade con le persone di ampio spessore culturale, che riescono a esprimere riflessioni e pensieri complessi con concetti e parole semplici, così questo vino sa trasmettere tutta la sua levatura traducendola in una estrema facilità di beva: nonostante l’enorme ricchezza, non stanca mai.
Un vino generoso, capace di donare tanta gioia.
Da abbinare alla compagnia di persone care, ma sta molto bene anche con salumi e formaggi di media stagionatura. Perfetto con l’agnello porchettato.
Perché David Landini… ha un suo modo di vedere le cose.
E a noi è piaciuto tanto il suo punto di vista.
Un abbinamento da Sapiens
E’ indubitabile che per festeggiare un incontro o sottolineare e la piacevolezza dello stare insieme sia quasi immediato pensare ad uno champagne. Senza nulla togliere all’effettiva qualità e al valore simbolico del più celebre spumante francese, ci permettiamo di suggerire altrimenti (qualcosa sulla nostra idea di abbinamento si può leggere qui).
I motivi che ci fanno uscire, per così dire, fuori dal classico “ostriche e champagne” sono tre:
1. Il vino che abbiamo in mente è in se stesso un incontro e un matrimonio d’amore;
2. Questo incontro poi si “sposa” assai felicemente con un altro elemento tipico della giornata degli innamorati, ossia il cioccolato;
3. Infine si tratta di un vino che è dolce, ma non stucchevole. Molto morbido, ma fragrante al tempo stesso.
4. Questo quarto punto è un Bonus, perché è ora che lo sappiate: l’abbinamento ostriche e champagne è terribile! Qualcuno doveva dirlo.
Meglio champagne e foie gras. Per le ostriche invece, vi suggeriamo di aggiungere una goccia di Vernaccia di Oristano Doc. Ma questa è un’altra storia…
Oggi vogliamo parlarvi di un grande vino prodotto dai nostri cari amici Mario Pojer e Fiorentino Sandri che si chiama Merlino, perché è magico davvero (cf. qui).
Un’idea che viene da lontano
Il più grande problema dell’enologia dei secoli anteriori a Pasteur e alla moderna tecnologia di vinificazione era quello di conservare il vino. Uno dei rimedi più efficaci, scoperto a metà del XIII secolo, fu quello di aggiungere al vino altro alcool, per impedire fermentazioni e acetificazioni indesiderate.
Oggi sappiamo il perché di questa tecnica: con un elevato grado alcolico, i lieviti fermentativi muoiono; e se l’alcool viene aggiunto a fermentazione non completa, rimarrà nel vino un residuo zuccherino, che manterrà quindi un gusto dolce al liquido. Questa in sostanza è l’idea che soggiace al Porto, forse il più conosciuto al mondo fra i vini cosiddetti fortificati.
O, per chi preferisce il lessico alla francese, vini mutizzati. I cugini d’oltralpe infatti, con il loro consueto estro comunicativo, chiamano l’aggiunta di acool mutage, mutizzazione, giocando sul fatto che con il conseguente aumento di gradazione alcolica cessa il ribollire gorgogliante del mosto in fermentazione.
Un pò di Porto in Trentino
Dai loro viaggi di studio e confronto, in zone e cantine celebri, Mario Pojer e Fiorentino Sandri riportano sempre idee e fermenti. Fin da subito virtuosi distillatori – celebre è l’aneddoto che racconta come la guardia di finanza scoprì la grappa clandestina che il giovane Fiorentino Sandri distillava a casa -, ebbero l’intuizione di usare il loro brandy per fortificare uno dei vini che producevano.
Così divennero l’unica azienda italiana che produceva in proprio i due elementi che formano un vino fortificato (convinti fautori di collaborazione e associazione, si distinguono anche per il contributo al risveglio della sensibilità per la produzione italiana del distillato: cf. qui ). Il controllo della qualità è pertanto assicurato e gli standard produttivi non si abbassano mai.
Rispetto al celebre Porto, la via della fortificazione è gestita in modo un pochino diverso. Se sulle rive del Douro lo stile ossidativo è piuttosto marcato, e famosi sono i Vintage, con lunghi affinamenti in bottiglia, a Faedo è solo il brandy ad essere lungamente invecchiato.
Il risultato è un’incredibile miscela di sentori. Proprio dal lungo affinamento in botte, del brandy sono il profumo di cacao, di vaniglia, di spezie. Dall’altra parte, i sentori fruttati di ciliegia e di marasca fanno parte del tipico “corredo” del lagrein, che conserva – all’interno del prodotto finale – tutta la sua fragrante freschezza.
Due componenti fusi insieme
Per distillare il brandy, si parte da una base che di fatto è una porzione del vino che verrà poi usato per le basi spumante dell’Azienda. Quindi una particolare spremitura da uve chardonnay, pinot nero e pinot bianco. Inutile dire che la qualità è alla base! Per non parlare dell’esperienza e delle innovazioni nel processo di distillazione in quel di Faedo! Basti ricordare che il liquido alcolico affina almeno 10 anni in botte, poi un altro periodo in acciaio.
L’assemblaggio con il lagrein avviene quando il mosto in fermentazione arriva intorno ai 4 gradi alcolici. La percentuale di brandy che si aggiunge al lagrein arriverà a circa il 30-40 % della porzione totale. Una volta assemblati, ai due liquidi si lascia ancora del tempo per amalgamarsi meglio, nella quiete silenziosa delle botti dove era stato ad affinare il brandy.
Una sorta di luna di miele, in cui il brandy porta il lagrein a conoscere i luoghi dove lui è maturato.
Solo quando i due hanno avuto modo di fondersi insieme, esaltando l’uno le caratteristiche dell’altro, il Merlino viene imbottigliato. Un’altro colpo di genio: indicare in etichetta le due annate: ad esempio, sulla bottiglia che è uscita sul mercato nel 2021, la vendemmia del brandy è quella del 2005 e quella del lagrein è la 2018.
Un caleidoscopio di sensazioni, da completare con un ultima gioia
Un vino unico e armonico, in cui solo la forzatura di un esame organolettico da professionista scomporrà i vari elementi. La magia del Merlino consiste proprio in un’equilibrata complementarietà. La dolcezza portata dagli zuccheri residui nel mosto “mutizzato” è bilanciata dalla freschezza del brandy.
Un vino dolce ma non sdolcinato, quindi. Il tannino, comunque presente nel lagrein, è ammansito dalla morbidezza della componente alcolica. Una struttura importante e un corpo di tutto rispetto, allegeriti però dai sentori e dagli aromi fini e delicati della frutta del lagrein.
Un connubbio che paradossalmente dà il meglio di sé aprendosi a stimolazioni sensoriali terze: in un palato intriso dall’untuosità del burro di cacao e già colpito dai tannini presenti nel cioccolato, non può avere piacevolmente spazio il sorso di un rosso qualunque. Occorre un vino duplice, che agisca sui due fronti, pur rimanendo sempre e armonicamente uno.
L’assaggio di cioccolato e di vino non provocherà una sensazione gustativa consequenziale, ma all’interno della bocca i due elementi potranno fondersi davvero, amplificandosi e raggiungendo un effetto di piacevolezza ineguagliabile.
Chi non prova un certo sospetto nei confronti di qualcosa che sia definito come paradosso o paradossale? Eppure, l’etimologia di per sé non ha alcun senso negativo: “asserzione contraria all’opinione generalmente accettata come vera”. Ossia, si intende che a margine dell’opinione comune, possa esserci l’intuizione e la visione di un genio, che non si accontenti di abitudini ripetitive e che conduca a conquiste culturali innovative. Esso, il paradosso, spiazza false certezze e sbaraglia lo stanco e consueto standard. La nuova realtà non esisteva prima magari solo perché nessuno l’aveva mai immaginata.
Eppure, un vino definito paradossale non smette di far pensare ad un produttore eccentrico e fantasioso, bizzarro e sregolato. Ma nel nostro caso è tutto il contrario. Non avevo mai sentito un vignaiolo che mi abbia confidato, come fece Mario Pojer qualche anno fa, di tenersi aggiornato, leggendosi tutte le tesi di laurea in enologia che venivano discusse a San Michele, dove fu alunno pure lui. Tantomeno, non ho mai visto raccolte e riutilizzate le più varie tradizioni e invenzioni enologiche di tutto il mondo, come nella gamma della cantina di Faedo.
Dalla fortificazione del vino al miglioramento genetico della vite, dalle macerazioni prolungate al controllo di atmosfera e temperatura in fermentazione, dalla tradizione del vin de reserve alla vendemmia tardiva botritizzata, non c’è eccellenza che Pojer e Sandri non abbiano studiato e “rubato” dai migliori, in ogni parte del mondo. Da esperti distillatori quali sono, hanno imparato davvero bene l’arte di “lambiccare” e rendere utile ogni informazione raccolta dalle più vaste esperienze enologiche.
La curiosità e il desiderio di apprendere e reinventare è parte del loro carattere intraprendente, ma si sono in verità alimentate di un sogno antico. Un’intuizione iniziale, forse romantica, seguita da anni ed anni di ricerca e sperimentazione.
Produrre un vino solamente frutto dell’uva, senza sostanze esogene ed additivi di sorta.
Può essere una battuta. Eppure, se si ha la pazienza, e il fegato, di documentarsi sulle sostanze lecite e permesse nella vinificazione, anche quella di vini che amano definirsi biologici, si smette immediatamente di scherzare! Acidi di varia composizione, albumina d’uovo, colla di pesce, gomma arabica, gelatine, chips di legno, bentonite, enzimi, liofilizzati…., chi più ne ha, più ne metta.
Di vendemmia in vendemmia, nella cantina di Faedo sono state invece messe a punto tecniche e accorgimenti per arrivare ad una vinificazione pulita e non invasiva. Lavaggio delle uve, raffreddamento dei grappoli, pressatura in assenza di ossigeno… e tanti altri brevetti tecnici, hanno consentito a Mario e Fiorentino di arrivare ad un sostanziale azzeramento degli interventi chimici nella vinificazione. Avviene senza cosmesi e ritocchi, seppur con un’attenzione altissima alla qualità e alla tecnica.
Rimaneva lo scoglio dei trattamenti in campagna. Ma le buone pratiche e le buone amicizie vengono in aiuto.
Da buoni bevitori, infatti, gli aggiornamenti per Pojer e Sandri sono anche le bottiglie che amici e colleghi portano loro in assaggio. Così, tramite Rudy Niedermayr, conoscono il solaris, varietà naturalmente resistente a peronospora e oidio. Ottenuta con incroci per impollinazione, è frutto di decenni di tentativi effettuati nel centro di ricerca di Friburgo (vedi qui per una descrizione più tecnica, o qui per una più ampia introduzione). Utilizzando alcune caratteristiche delle viti selvatiche di ascendenza asiatica ed americana (vitis amurensis, saperavi, labrusca), si possono ottenere uve con cui produrre un buon vino dal gusto europeo, risparmiando però le decine di passaggi in vigna con antiparassitari e anticriptogamici.
Dopo aver bene approfondito la questione, Mario e Fiorentino mettono a dimora queste viti in un terreno a 850 mt. di altitudine, in Val di Cembra. Dove la naturalità dell’evitato impiego di fitosanitari viene amplificata dal fatto che il vigneto è circondato da boschi. Isolato quindi da altre colture, e pressoché incontaminato. Un piccolo problema, che non spaventa i due soci: allora il solaris non era autorizzato. Ma quando nel luglio del 2013 la varietà verrà ammessa in Trentino, Pojer e Sandri possono, dopo pochi mesi, fare la loro prima vendemmia.
Per rimanere fedeli al loro sogno, studiano la migliore via di vinificazione di uve così particolari. Arriva l’idea è di recuperare l’antica tradizione del prosecco col fondo e la vinificazione del “vecchio” Lambrusco. In pratica si cercherà di sfruttare i lieviti non solo per il loro normale ruolo nella fermentazione, ma anche come agenti antiossidanti, quando ormai il vino sarà in bottiglia. I due trentini vanno a scuola dal “prof.” del Lambrusco di Sorbara, Vincenzo Venturelli e nasce quindi un vino non filtrato, frizzante, che termina la sua fermentazione in bottiglia, con tappo a corona. La sedimentazione dell’acido tartarico e dei lieviti esausti qui rimane in bella mostra grazie ad un vetro trasparente. Ed è giusto che sia evidente, visto che è proprio essa a svolgere la funzione che di consueto è compito della quantità di anidride solforosa aggiunta, qui – ça va sans dire – ridotta a zero!
Per tornare a giocare con la paradossalità del nostro vino, un ultimo dettaglio. Nel vigneto di Grumes hanno selezionato naturalmente un lievito particolare, e con esso, in cantina, preparano una sorta di pied de cuve. Non il comune saccharomyces cerevisiae, ma il più raro e nobile saccharomyces paradoxus! Esso, oltre a lavorare meglio, apporta in dote sentori più fini e agrumati.
Così lo Zero infinito ha un carattere paradossale già dall’inizio della sua vita, nella primissima fermentazione. Per poi permanere fino alla fine nella sua essenza ossimorica: nonostante si chiami Zero infinito, le bottiglie si esauriscono già pochi mesi dopo la loro uscita sul mercato, alla fine di marzo.
Ma qui a Vinosapiens ormai lo sappiamo, e ne facciamo scorta! Almeno per ora, da noi, ancora non è finito!! Ma non ne abbiamo purtroppo così tante da permetterci di conservarne parecchie: perché sarebbe davvero interessante poter verificare fra qualche anno a che qualità il tempo potrà portare il vino. Chissà come sarebbe interessante una verticale di Zero Infinito!
Quasi quasi, invece di rilanciarle nello shop on line (qui), le bottiglie ce le teniamo tutte! Ecco, l’ultimo dei paradossi…
Nell’estate 2020 viaggiammo in Sardegna, non per tuffarci nel suo mare cristallino, ma per una settimana di full immersion nelle cantine e nella cultura dei vini ossidativi della costa occidentale dell’isola.
Per certi versi, era un mondo a noi quasi del tutto sconosciuto. Eppure, qualche idea preconcetta la avevamo. Sentori e sapori del vino ci costringevano a rimodulare i nostri canoni gustativi, e lo facevamo volentieri.
In testa, però, rimanevano alcune considerazioni teoriche, mandate a memoria durante lezioni e corsi, in base alle quali avevamo alcune ipotesi di abbinamento. In parte già verificate, altre che avemmo il piacere di verificare insieme ad alcuni produttori: al cospetto di vignaioli inizialmente increduli, fu davvero emozionante assistere alla loro sorpresa, nel gustare di nuovo il loro vino abbinato a cibi cui non avevano mai pensato prima.
Analogo scetticismo, però, lo provammo anche noi di fronte alla proposta, fattaci da un giovane produttore di Vernaccia di Oristano, di abbinare le sue etichette con frutta fresca di stagione, anguria o melone.
Scetticismo e sorpresa, perché fra sommelier circola un dogma: con la verdura e la frutta a sé stanti non si abbina nessun vino. In quell’occasione, tuttavia, non potemmo fare tale esperimento: così rimase in sospeso quell’insolito accostamento, che Davide Orro ci assicurò perfettamente riuscito e piacevolissimo.
Sorrideva, come fa spesso, e questo poteva indurci a credere che ci apparecchiasse uno scherzetto. Allo stesso tempo, come fa altrettanto spesso, era fermo e sicuro di quello che diceva.
Quella circostanza mi è tornata in mente tempo dopo, leggendo alcune note del professor Tommaso Montanari, celebre divulgatore di storia e di cultura dell’alimentazione.
Derivata dai principi della medicina ippocratica e galenica, la dietetica medioevale intendeva – semplifico moltissimo – la digestione come un processo di combustione, per la quale un eccesso di cibi classificati come freddi sarebbe stato dannoso. Beninteso, il binomio freddo/caldo non si riferisce alla temperatura di servizio, quanto piuttosto ad intrinseche qualità.
Ad esempio, la freschezza e l’acquosità di troppa frutta potrebbero rischiare di alterare il naturale calore dell’organismo. Secondo questa visione, gli umori corporei debbono essere in equilibrio, e per non alterarlo, cibi dalla “frigidità” eccessiva occorre che siano temperati, da una cottura vera e propria o almeno dall’accostamento con il vino, bevanda dall’intuibile qualità calda.
Fra i curiosi aneddoti che Montanari cita ad illustrazione delle sue narrazioni, ricordiamo l’abitudine della pera cotta nel vino e un’usanza – a noi finora sconosciuta – tipica della Francia, di consumare il melone con un bicchiere di Porto o di un vino dolce di gran corpo (M. Montanari, Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Bari 2009, 33-39).
Capite come leggendo le pagine di Montanari abbia dovuto immediatamente ricredermi su un’abbinamento a primo acchito giudicato improbabile: che anche l’anguria assieme alla Vernaccia di Oristano trovino la loro origine in saperi antichissimi, con una coerenza e visione olistica molto più originali e affascinanti di tante idee di abbinamenti strampalati e bizzarri?
Rimaneva solo la controprova delle sensazioni organolettiche provocate dall’accostamento in questione. E dobbiamo essere sinceri: per questa volta abbiamo rinunciato a compilare la scheda tecnica dell’abbinamento, utile sì a rendere evidente e ragionevole l’accostamento, riuscito o meno.
Eravamo in compagnia di amici bevitori: il consenso è stato unanime e contagiosa la sensazione di benessere e di piacevolezza. Ed è bastato questo. Esperienza ed erudizione convergevano con la soddisfazione del gusto! Un vero abbinamento da sapiens!!
D’ora in poi potremo sorprendere altri commensali, proponendo loro un vino anche per la frutta. E lo potremo fare non perché avvinazzati fino all’estremo, fino all’ultima portata, ma con un consapevolezza culturale nuova ed interessante.
Sebbene alcuni “cocomerari” romani amici ci abbiano una volta aperto il cuore svelandoci segreti e stili di vita di un vero venditore di angurie, non possiamo ora dare indicazioni su dove e come acquistare un buon cocomero. Possiamo indirizzarvi, invece, verso un’ottima Vernaccia di Oristano(qui), ed augurarvi un piacevolissimo ristoro.