Da “ossidato” a “ossidativo”: se un difetto diventa grande pregio
La grammatica della lingua italiana induce una vicinanza stretta fra i due aggettivi, riconducibili entrambi al participio, “ossidativo” ed “ossidato”. Eppure, assumendo questa tesi anche in ambito enologico, non si renderebbe giustizia dell’abisso che separa un vino ossidat-ivo da un vino ossidat-o. Ciò che nel secondo caso, e vale per quasi tutti i vini, sarebbe un difetto e uno spauracchio, nel primo caso, e sono pochissimi gli esemplari, è desiderato e prezioso: stiamo parlando appunto dell’ossidazione, ossia del naturale ed inesorabile processo chimico che accade ai principali costituenti del vino quando vengono a contatto con l’ossigeno, sia prima dell’imbottigliamento sia durante il periodo in cui il vino rimane in bottiglia. E’ soprattutto nei vini pensati a durare negli anni che l’affrontamento di tale processo naturale diventa una sfida intrigante e dagli esiti mai scontati.
Alcuni metodi di vinificazione tentano di aggirare il problema, laddove in cantina si lavora “in riduzione”, cercando con espedienti tecnologici di ridurre al minimo la presenza di ossigeno nelle varie fasi di lavorazione delle uve e dei liquidi. Più generalmente, oltre alla normale attenzione e pulizia nel processo, si trova aiuto nell’utilizzo di antiossidanti, quali ad esempio l’anidride solforosa – da cui quel famigerato “contiene solfiti” in etichetta.
Per altre pochissime tipologie di vino, tuttavia, la sfida contro l’ossidazione è combattuta per esasperazione, esagerandola e portandola al limite; in questi casi la vittoria è ottenuta in modo strabiliante.
Vini Ossidativi: alcuni cenni storici
Assai avvincente, inoltre, è anche la storia e la cultura alla base di essi. Caratteristica comune degli ossidativi, forse ad eccezione di un tipo, è l’originaria destinazione al trasporto via mare; per essi enologia, geopolitica e storia dei mercati si intrecciano in una narrazione affascinante, più di quanto accade comunemente per qualsiasi vino.
Addentrandoci quindi nei particolari, si può fare una prima distinzione fra vini ossidativi fortificati e vini ossidativi non fortificati. Per fortificazione si intende l’aggiunta di alcool (o anche acquavite o mistella) al mosto in fermentazione o al vino base già completamente fermentato: il liquido così ottenuto avrà un titolo alcolometrico elevato e, soprattutto, godrà di una stabilità assai maggiore e di conseguenza, prospettive di maturazione e conservazione altrimenti inarrivabili. Porto, Madeira e Sherry sono i fortificati più conosciuti e che raggiungono livelli di qualità eccelsi, anche in circostanze proibitive. Emblematico il caso del Madeira delle origini: le navi portoghesi che solcavano gli oceani utilizzavano le botti piene come zavorra, e quando tornavano dalle Indie, dopo aver subito il caldo dell’Equatore, il vino che avevano nella stiva era migliore di quello di partenza: un metodo di affinamento davvero singolare! Il Madeira di oggi non fa più la ronda, il giro del mondo, ma affina nelle bodegas dell’isola, ma è comunque “torturato” da botte di calore che annichilirebbero qualsiasi bottiglia. Un altro vino la cui origine è contemporanea ai grandi viaggi di scoperta è lo Sherry, da una piccola porzione dell’Andalusia che da Jerez de la Frontera si affaccia sull’oceano. Già abbastanza forte per natura, per renderlo capace di “viaggiare” gli si aggiunge un distillato dello stesso vino. Poi, a seconda della quantità di alcool con cui lo si fortifica, evolve nelle diverse varietà. Alcune davvero particolari, che hanno qualcosa in comune con gli ossidativi non fortificati, ma ne parleremo meglio più sotto. Al di là di tutte le varietà, oltre alle caratteristiche organolettiche uniche, sorseggiare un calice di questo vino spagnolo può farci sognare di accoumunarci alle imprese di Magellano, che per l’equipaggiamento delle sue navi spendeva più in Sherry che in armamenti, o immaginarci seduti nelle fumose osterie di Londra, dove per giorni e giorni si brindò con i circa tremila otri che il pirata Francis Drake riuscì a razziare dal porto di Cadice.
Altra storia influenzata dall’antico dominio inglese dei mercati del vino è quella del Porto, il vino della valle del Douro, in Portogallo, fortificato perché potesse poi giungere indenne sulle tavole inglesi, che andavano pazzi per quel vino scuro, forte e corposo, che lasciava eppure una scia zuccherosa in bocca.
Un’ulteriore case history che testimonia l’insaziabile sete dell’Inghiterra e il fiuto per gli affari dei suoi mercanti è la vicenda del Marsala. La storia narra che fu una tempesta, nel lontano 1773, a costringere la nave di John Woodhouse ad attraccare nel porto della città; costretto a rimanere a Marsala, si consolò assaggiando i vini del luogo. Intuendone il potenziale, ne fortificò alcune botti e le spedì in patria: il successo fu tale che da marcante di soda, il nostro John in pochi anni divenne ricchissimo importatore di Marsala, primo di molti inglesi a colonizzare quel lembo della Sicilia Occidentale. E’ del tutto plausibile l’ipotesi che gli assaggi di Woodhouse fossero dei perpetui, ossia prodotti a partire da una frazione di vino vecchia, a cui si aggiungeva, man mano che se ne spillava dalle grandi botti, vino nuovo fino a colmare di nuovo il contenitore. Un processo simile al metodo soleras spagnolo, in cui non tuttavia un’unica grande botte, ma botti più piccole disposte le une sopra le altre e comunicanti: da quelle più in basso si preleva il vino da consumare o da vendere, e da quelle più alto si rabbocca la quantità mancante. Tale similitudine e forse il gusto vagamente analogo, probabilmente accese in Woodhouse la speranza di aver trovato il modo di posizionarsi parallalelamente, o addirittura davanti, al mercato dello Sherry e del Madeira. In effetti, ci fu chi commercializzò il Marsala come Sicily Madeira. Purtroppo, al successo seguì un approccio quasi industriale al processo di preparazione, fortificazione e di trattamento del Marsala, fino a squalificarne qualità e prestigio. Oggi, oltre a picchi di eccellenza e qualità finissima in alcuni Marsala classici, si sta diffondendo una riscoperta e diffusione del Marsala pre-british, ossia di un vino già di per sé piuttosto alcolico, maturato secondo lo stile del perpetuo: il suo tenore e la sua freschezza lo proteggono da una fatale ossidazione, mentre l’acidità e il gusto eccezionale ne propiziano abbinamenti con il cibo inaspettati e funambolici.
Malvasia di Bosa e Vernaccia di Oristano: antichi vini d’avanguardia
Questo nuovo – e allo stesso tempo antichissimo – stile ossidativo non fortificato, diffusosi nella zona del Marsala, ci accompagna nel passare a raccontare qualcosa dell’altra categoria classica dei vini ossidativi, quella il cui segreto non sta appunto nella fortificazione ma nell’azione prodigiosa e strabiliante di alcuni ceppi particolari di lieviti. Questi microorganismi sono i responsabili della fermentazione, il processo chimico di trasformazione degli zuccheri contenuti nel mosto in alcool, anidride carbonica e calore. La quasi totalità dei lieviti fermentativi rallenta la loro azione fino poi giungere alla morte in relazione all’aumento del tenore alcolico del mosto che sta diventando vino. Muoiono sia perché si esaurisce la loro fonte di nutrimento sia perché uno dei prodotti della loro sintesi, l’alcool, diventa un contesto ostile e fatale. Ci sono alcuni ceppi, invece, che hanno subito una mutazione genetica che li rende speciali, e capaci di una nuova vita, quando il mosto è ormai diventato vino vero e proprio. Hanno, diversamente dagli altri, attivo un gene, classificato flo-11, che li rende capaci di trasformare la loro vita e il loro metabolismo. Da anaerobici diventano amanti dell’ossigeno, da consumatori di zucchero diventano capaci di metabolizzare l’alcool, e mostrano un insolito comportamento che potremmo definire sociale, aggregandosi l’uno con l’altro fino a formare un biofilm, che in Francia chiamano voile, in Spagna flor… e in Italia, no, ancora non sappiamo come chiamarlo! Eppure da noi abbiamo ben due delle pochissime tipologie di vini da lieviti flor, la Malvasia di Bosa e la Vernaccia di Oristano. Recentissime scoperte archeologiche hanno dimostrato che in Sardegna la domesticazione della vite e la vinificazione era prassi anche prima dell’arrivo dei Fenici: una cultura vinicola che avrebbe quindi tre millenni di storia. Inoltre, se sono fondate le ipotesi, assai plausibili, di chi associa il termine latino vinum mirratum, che descriveva il vino locale, e il modo sardo di definire il particolare sapore dei due ossidativi, murruai, allora si può immaginare che già da allora lo stile ossidativo della vernaccia era conosciuto e apprezzato. Un vino antichissimo, dall’affinamento biologico – favorito da microorganismi e non dunque da fortificazioni e aggiunte esterne -, eppure sconosciuto ai grandi mercati della storia. Un vino di territorio, e legato alle tradizioni dell’ospitalità e del consumo familiare della gente del posto: era il vino della domenica, quando dopo la messa gli uomini si incontrava nella cantina dell’uno o dell’altro per spillare dalla botte e discutere di quegli assaggi. Diversi per qualità dell’uva (neutra la vernaccia, leggermente aromatica la malvasia di Bosa) e per composizione dei terreni, Oristano e Bosa distano poche decine di kilometri. Simile il processo di affinamento: il vino viene lasciato in botti scolme, quindi con uno spazio d’aria che serve ai lieviti per respirare e moltiplicarsi. Nonostante il grande lavoro dei lieviti flor, che mangiano e sintetizzano alcool, il titolo alcolometrico sale: le botti di castagno favoriscono l’evaporazione dell’acqua, la cui molecola più piccola riesce a passare dai pori del legno, diversamente da quella dell’alcool. Così il liquido matura lentamente, protetto in alto dal velo di flor, e avvolto dal legno di botti secolari. Tutto naturalmente, in un equilibrio delicato e pazzamente connesso con il luogo dove tutto questo accade: in cantine inconsuete, areate e più calde, nella zona di Oristano, o nei fondi familiari del centro di Bosa. Sembra di immergersi in un mondo di antichi alchimisti, eppure modernissimi ricercatori stanno precisando sempre più il metabolismo dei lieviti flor, riuscendone persino a tracciarne le tappe e i luoghi evolutivi; sembra la mutazione sia avvenuta nella zona dell’odierno Libano, poi in Spagna e in Francia. In una marginale regione della Francia vinicola, per caso o per uno scherzo della storia luogo di nascita e di studio sperimentale anche del padre della moderna microbiologia, Louis Pasteur, accadono gli stessi fenomeni ossidativi della Sardegna e di alcuni tipi di Sherry, grazie ai lieviti flor. I transalpini sono più bravi nella poetica descrittiva, e sicuramente il loro vin jaune (la traduzione letterale sarebbe vino giallo) e la particolare bottiglia creata all’uopo, il clavelin, da 0,62 lt. (quello che rimane da un litro di vino dopo sei anni di affinamento in botte scolma florizzata) hanno più risonanza internazionale di una cantina sarda. Sebbene si noti che il vino ossidativo giurassiano è espressione più nordica e continentale, rispetto agli esuberanti cugini mediterranei, sembra che il vitigno più vocato in quelle zone, il savagnin, altro non sia che il traminer portato dagli eserciti di Roma.
Più affilato e tagliente nella versione francese, più glicerico e corposo nelle due tipologie sarde, più dolce in quel di Xerez, il vino ossidativo da flor sorprende per evocazioni olfattive che seducono e inducono un’aspettativa al sorso, che verrà ribaltata una volta che il liquido sia in bocca.
Questo ribaltamento delle sensazioni, che sorprendentemente sposta aspettative e percezione, rende tali vini un poco ostici al consumatore frettoloso, che non cerca complicazioni. E’ pure vero che la via che essi cercavano per vincere la sfida della conservazione in un tempo lungo può essere benissimo oggi accorciata dalle scienze e dall’enotecnica moderna. Tuttavia accostarsi ad un calice di vino ossidativo ha il fascino di bere qualcosa di altri tempi, rimanendo immersi nella contemporaneità; anzi, in un mondo che pur con fatica vorrebbe avvicinarsi alla sostenibilità e alla naturalità, dissetarsi con bevute tanto lontane dai vini tecnologici e industriali significa precorrere il futuro.
Per non parlare poi degli orizzonti che si aprirebbero, creando abbinamenti strabilianti con il cibo. Partendo dagli accostamenti tradizionali, come il vino giurassiano e il Comté, o la vernaccia e la bottarga, si può spaziare nel vasto mondo dell’inusuale e del non banalmente scontato. La ricerca potrebbe continuare poi con altre tipologie semisconosciute, come gli ossidativi del Rousillon o la particolare versione del Tokaj secco florizzato, fino a sporadici tentativi di sperimentare l’ossidazione di vignaioli coraggiosi e inquieti.
Per un vino che affina nel tempo per mantenere freschezza e vigore senza tempo, occorre solamente, appunto, tempo, per conoscerlo, capirlo, e senz’alcun dubbio, apprezzarlo, fino a che diventi uno spartiacque nella propria esperienza enologica: parrà che prima di aver provato e gustato un’ossidativo si sia bevuto acqua fresca.
CONDIVIDI L’ARTICOLO SU