Da un’oscura nube minacciosa a un sereno chiaro di luna.

Dai ghiacci e dalla notte un vino caldo e luminoso

All’origine di una straordinaria bottiglia di vino ci possono essere occasioni le più varie. Da tradizioni secolari a sfide di vignaioli ed enologi innovatori, da fondati e solidi studi geo-morfologici del terroir a mode volubili di mercato, e tanto altro. La storia del vin de glace a base prie blanc valdostano evoca, piuttosto, vicende drammatiche e singolari: un chiaroscuro davvero avvincente, a dimostrare l’eroico ingegno umano e la sua affascinante adattabilità.

Non facciamo qui una sintesi ampelografica del vitigno in questione (per un approfondimento, cf. qui) Ne ricordiamo solamente il particolare ciclo vegetativo e la sua rara giacitura. Piantata intorno ai mille metri, la vigna non può permettersi il lusso di arrivare molto in là con la maturazione dei grappoli. Il confronto con condizioni metereologiche sfavorevoli sarebbe troppo rischioso, se la vendemmia si inoltrasse troppo avanti, a tardo autunno.

Questa temibile possibilità divenne invero tragica realtà nel 1816. L’anno precedente, la gigantesca eruzione del vulcano indonesiano Tambora, alterò in modo significativo il clima e le temperature dell’intero pianeta. La quantità, e la densità, di ceneri immesse nell’atmosfera oscurarono il sole, per così dire, alterando il consueto irraggiamento della terra. Anche in Europa, e, segnatamente, in Val d’Aosta. Ci sono testimonianze scritte, nel Castello di La Salle, che ricordano la vendemmia del millesimo 1816, forzatamente tardiva. Una maturazione che non arrivava mai, a conseguenza degli stravolgimenti sopra ricordati. Così la raccolta delle uve avvenne a fine novembre.

Da antiche carte il coraggio del presente

Ebbene, proprio dalla lettura di quelle tracce storiche, ai viticoltori della Cave Mont Blanc venne l’idea di provare la vinificazione di un icewine. Da quelle parti, più propriamente, si sarebbe chiamato vin de glace. Il dato essenziale è che gli acini, al momento della raccolta, debbano essere ghiacciati, in modo che si possa separare naturalmente la parte acquosa del chicco, riuscendo a concentrare zuccheri, polifenoli e altri composti. L’unicità e la preziosità del mosto è proporzionale alla suggestione (e alla fatica) della vendemmia.  Avviene prima dell’alba, al chiaro di luna, nelle ore più fredde, appunto per portare in cantina grappoli ghiacciati. Una sfida che ogni anno si rinnova. Ma il coraggio e l’energia non mancano al giovane enologo della Cantina, Nicola del Negro, né a ciascuna delle 80 famiglie che coltivano i singoli vigneti, dai più grandi appezzamenti ai pochi filari, tutti preziosi. D’altronde, la società cooperativa ha raccolto l’eredità di sapere e di intuizioni che ispirarono la lungimiranza dell’abbé Bougeat.

Altro curioso paradosso: il vino del parroco di Morgex era uno dei più amati da Gino Veronelli. L’anarchico e il libertino sapeva riconosceva ammirato la qualità e la “razza” del prie blanc, allora allevato quasi solamente dal curato. Il quale ebbe il merito di tramandare passione e pratiche viticole (per ulteriori curiosità e aneddoti, cf. qui).

Una bottiglia “storica”, il “clos de curé” dell’Abbé Bougeat, conservata nella cantina Ermes Pavese (Morgex)

Un vino nordico, ma in stile mediterraneo

Sotto la guida di Nicola, la complessità organolettica dello Chau de Lune viene impreziosita dall’affinamento di almeno 12 mesi in botti dalla varia caratura e dall’assemblaggio di doghe di diversi legni. Rovere, melo, pero e altri legni ma non deve mancare una doga di ginepro. L’affinamento avviene poi in ossidazione, cioè con un contatto importante con l’ossigeno. Nella lavorazione di questo vino prettamente alpino sono curiosamente evocati gli stili di affinamento in botti scolme, tipici della Malvasia di Bosa o della Vernaccia di Oristano, o ancora del Marsala.

Alpi e mediterraneo, dunque! D’altronde, quando, anni fa,  l’allora presidente della Cantina, Mauro Jaccod, ci parlò per la prima volta dello Chau de Lune ci indicò come abbinamento par excellence quello con i cannoli siciliani! Anche il suo giovane successore, Nicolas Bovard, ci ha testimoniato, entusiasta, l’eccellenza di questa etichetta: lo straordinario contenuto zuccherino, ben bilanciato da un’altrettanto notevole quantitativo di acidità tartarica. 

Da sinistra, Nicola Del Negro (enologo), Marco (Vino Sapiens), Nicolas Bovard (Viticoltore e Presidente di Cave Mont Blanc)
L’altra faccia della luna…

La degustazione: l’ossimoro si rende percepibile ai sensi

L’incontro con Chau de Lune è un’esperienza indimenticabile. In una parola: energia. Ma perché usarne una sola quando siamo al cospetto di un vino che si fa racconto delle gesta che lo hanno portato fin dentro al nostro calice. La narrazione inizia già dal primo sguardo.

Brillanti riflessi oro zecchino sembrano ricordare il crogiolo che lo ha forgiato. Il bouquet olfattivo sussurra i legni utilizzati per l’affinamento che lo hanno contenuto: le doghe piegate dall’acqua e solo parzialmente dalla leggera tostatura. Profumi di mediterraneo, dicevamo, dove il pomodoro concentrato, lo zenzero candito, il cappero in salamoia, sono le potenti note di soprano sostenute da un clamoroso coro di erbe aromatiche e officinali.

E poi l’assaggio… da bere o forse più da mordere. Tutto il travaglio, le cure, la fatica, l’attesa, la speranza… In una parola, l’umanità che ha portato dei grappoli gelati in cantina e li ha trasformati in qualcosa di più, è qui che si percepisce: bagnando le labbra nella meraviglia. Un vino da dessert certamente, ma è il sale il vero protagonista. Lo è sempre, quando si è al cospetto di un grande vino dolce.

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