Pur essendo assai complicata da sbrogliare, è davvero suggestiva la vicenda della Malvasia, e delle Malvasie, quasi una case-history ante litteram. Un vino navigato, le cui tracce ci invitano a viaggiare nel tempo, a tornare indietro nei secoli, attraversare i cicli meteoreologici (dall’optimum climaticum alla piccola glaciazione), a salire a bordo delle galee veneziane o perfino ancora più indietro nelle imbarcazioni dei Nostoi e degli Argonauti; ad andare su e giù per l’Adriatico e il Mediteranneo, arrivando poi persino a Madera e Tenerife. Insomma, un groviglio.
Ma, per fortuna, esistono ancora i Maestri. Persone eccezionalmente colte e capaci di sintetizzare e semplificare una mole enorme di informazioni, di saperi e discipline le più varie, tutte convergenti in una narrazione epica, che pure è storia.
Così attingiamo volentieri da diverse conferenze e da un libro, consigliatissimo, di Attilio Scienza (A. Scienza – S. Imazio, La stirpe del vino, Milano 2018).
Cominciamo, segnalando due date.
Siamo nel 1453 – fra l’altro è l’anno in cui Costantinopoli cade in mano turca -, e all’estremo occidente francese, gli Inglesi devono lasciare Bordeaux, sconfitti, ormai, nella secolare guerra con i Francesi, che conosciamo appunto con il nome famigerato “Guerra dei Cent’anni”. Per i britannici non si tratta solamente di perdere possedimenti nel continente, ma anche di compromettere gli approvvigionamenti di vino, a loro tanto caro. In tale contesto, Venezia decide di inviare ai reali inglesi 8 botti di Malvasia. No, non fu un gesto ironico, un invito a bere per dimenticare la batosta – di fatto Enrico IV perse il senno -, ma un oculatissimo investimento: da allora la Malvasia alla moda veneziana conquista il mercato di Londra. Prova ne è, fra tante, che ancora due secoli dopo, il genio letterario di Shakespeare può codificare nei suoi versi un’antica leggenda, quella cioè che il Duca di Clarence, Giorgio il Plantageneto, nei torbidi della guerra delle due Rose, sarebbe stato affogato in una botte di Malvasia.
Ora facciamo un salto indietro, nel XIII secolo, quando il clima favorevole, che facilitò per secoli la diffusione della viticoltura anche in latitudini e altitudini del continente europeo oggi improponibili, comincia ad invertire la tendenza: stagioni sempre più fredde, fra molte altre conseguenze terribili, resero sgraditi, ai palati raffinati delle classi alte, i vini comuni fino ad allora apprezzati. Ma la fortuna volle che per varie circostanze legate a spartizioni territoriali successive alla IV crociata, la Serenissima Repubblica, nel 1248, pianta il vessillo con il Leone di San Marco su un’isola del Peloponneso chiamata Malvasia. Nel suo porto caratteristico, si commerciava un vino dolce, aromatico e sufficientemente alcolico da renderne possibile il trasporto senza pericoli di scadimenti.
I mercanti veneziani capiscono di avere a che fare con un tesoro, ed incentivano la produzione di tale vino; si moltiplicano i vigneti nella ben più grande isola di Candia (l’odierna Creta). Ebbene, tra il 1500 e il 1700, vuoi per il fiuto per gli affari dei veneziani, vuoi per la situazione disastrosa di tanti vigneti rovinati dalla piccola glaciazione, il vino di Malvasia diventa il vino più importante d’Europa, destinato alle corti e alla cerchia più alta della società. In laguna, paradossalmente, di quel vino che pure arrivava a fiumi, non se ne beveva, ad eccezione di quello servito negli esclusivi pranzi ufficiali della Repubblica. Dai moli veneziani, piuttosto, le botti ripartivano alla volta di innumerevoli sbocchi commerciali: la Malvasia è ormai un vero e proprio status symbol.
Da “ossidato” a “ossidativo”: se un difetto diventa grande pregio
La Malvasia “cambia” il gusto
Ancora più sorprendente è quello che accade quando, a causa della crescente ascesa dell’Impero Turco, Venezia perderà progressivamente la capacità di rifornirsi del prezioso nettare (è del 1699 la caduta di Candia). In una strabiliante conversione strategica, d’allora in poi la Repubblica si interesserà direttamente della coltivazione della vite nei possedimenti che le rimangono, lungo l’Adriatico e non solo. Da gente abituata a trascurare la cura della terra per cercare la fortuna sui mari, i Veneziani ora si occupano, eccome, di vigneti. Impongono infatti il nome del vino Malvasia, garanzia di successo commerciale, anche a vini e vitigni da che non avevano nulla a che fare con la varietà e il contesto originale, se non qualche nota dolce e aromatica. Tutti intuirono che vini, fino ad allora classificati in base al colore o alla generica provenienza (de plano, de monte...), se ora trafficati come Malvasia, avrebbero assunto tutt’altro valore
Dapprima Malvasia è il nome del luogo, evocativo ed esotico, usato per accarezzare il gusto e la tendenza di ricercatezza del mercato aristocratico. Poi, cambiata la situazione geopolitica, avviene l’eclatante trasferimento del nome del vino di successo a diversi vitigni, utilizzati per rimpiazzare il vino originale. Per questo, oggi abbiamo le Malvasie, al plurale; vitigni di luoghi e determinazioni diverse, e che fra loro hanno poco in comune eccetto il nome, dalla Croazia fino alle Baleari e Madera.
Eccezioni sono la Malvasia delle Lipari, il Greco bianco calabrese e la Malvasia di Bosa, in Sardegna. I tre, geneticamente, sono lo stesso vitigno.
E’ evidente il legame di questa pianta con il mare, i porti e le coste, anche se rimane misteriosa la triplice collocazione geografica dello stesso ceppo. Mistero per mistero, allora, finiamo citando un leggendario riferimento, fra i “popoli del mare”, agli Sherdana, o Shardana, invincibili guerrieri marinari, di cui gli odierni Sardi sarebbero eredi. Per onorare questi ultimi, Angelo Angioi ha voluto nelle sue etichette di Malvasia il drago sardo. Fra il leone di San Marco veneziano della primissima Malvasia, e il drago Sardo della sua Malvasia di Bosa, e in attesa che vignaioli visionari greci riportino in vita, come stanno tentando di fare, il vero, autoctono ed originale vino Malvasia, ci stappiamo davvero volentieri un’etichetta della cantina Salto di Coloras (puoi acquistarlo qui) Mentre ne assaporiamo profumi e sapori, chiudiamo gli occhi. Iniziamo a viaggiare, immaginandoci su una galea, in qualche porto del mediterraneo…
(Dalla poesia alla scienza: i vini da flor)
“I suoi riccioli liquidi
sono coperti di fiori bianchi”
(Archestrato di Gela, IV sec. a.C.)
Secondo il grande storico del vino H. Johnson, questi frammenti dell’opera conosciuta sotto il nome di Poema del buongustaio, descrivono una bevanda alcolica a noi familiare!
Sì, nei suoi viaggi alla ricerca dei piaceri della tavola, il poeta della Magna Grecia aveva incontrato, sull’isola di Lesbo, un vino incredibile, che descrive proprio in questi termini. Ora, si potrebbe pensare lecitamente ad un’ebbra fantasia e ad un trasporto forse troppo accalorato da eccessive bevute.
Eppure, lasciata la poesia e senza poter essere certi dell’effettiva identità di quell’antico vino, di liquido alcolico “coperto di fiori bianchi” ne conosciamo anche noi, e di vari! Se la letteratura ci offre indizi per ricostruire tradizioni e legami, la scienza ci aiuta a capirli meglio.
Può essere infatti del tutto probabile che quell’antico vino greco sia avvicinabile a quelli che noi oggi definiamo come vini ossidativi, vinificati sotto “flor“, per dirla alla spagnola.
Dal punto di vista scientifico i “fiori” che si notano sulla superficie del vino in botte non sono altro che catenelle e raggruppamenti di lieviti microscopici dal comportamento curiosamente “sociale”.
Si tratta di uno strato che si forma, in particolari condizioni, sulla superficie del vino che viene messo a maturare in botti lasciate appositamente scolme, ossia non del tutto piene, e, quindi, con un’importante porzione di aria nel recipiente. Tale strato i microbiologi lo chiamano biofilm, i vignaioli francese dello Jura, con un tocco poetico degno di Archestrato, lo chiamano “voile“, velo.
Tornando alla biologia, alcuni ceppi di lieviti, i principali protagonisti della trasformazione del mosto in vino, hanno un patrimonio genetico del tutto eccezionale, che li rende capaci di una doppia vita.
Ad un certo momento della loro avventura nel mosto derivato dalla pressatura delle uve, quando già hanno compiuto il prezioso lavoro di decomposizione degli zuccheri e della loro trasformazione in alcool, cominciano a spostarsi sulla superficie del liquido. Nella fase sommersa, l’ambiente è ad essi favorevole, ricco di sostanze che sono il loro cibo.
Ma se per i normali lieviti, il prodotto di scarto di questo processo nutritivo, ossia l’alcool etilico, alla fine diventa irrimediabilmente fatale e l’habitat che fino a poco prima li deliziava e li nutriva diventa saturo e insopportabile fino a dar loro morte, i lieviti “flor“ hanno una risorsa nascosta: stressati dalla situazione che si va facendo sempre più minacciosa e che cambia ad ogni ora che passa, essi alterano a loro volta il loro metabolismo e accendono un gene particolare, che li rende capaci di “mangiare” anche l’alcool.
In questa nuova fase di vita, diventano idrofobi, e nelle loro membrane cellulari si sviluppa una proteina, chiamata adesina, che favorisce l’aggregazione. Così miliardi e miliardi di microorganismi si ritrovano sulla superficie del vino e si aiutano nel gestire gli scambi con l’ossigeno della botte scolma, sopra di loro, e con l’alcool, al di sotto. Sì, perché nel frattempo, da anaerobi sono diventati aerobici.
Tutto questo prodigio, qui fin troppo banalmente semplificato, è minuziosamente studiato e descritto da fior (è il caso di dirlo) di scienziati. A noi, appassionati di vini, affascina e interessa, ma il giusto, per capire il mistero di tali vini, impreziositi dall’opera mirabile di questi piccoli amici, che permettono al vino di gestire e di vincere la sfida con l’ossigeno, e quindi con il tempo, e di arricchirsi di precursori di aroma e di complessità del tutto particolari, dovuti all’acetaldeide, che è il prodotto di scarto della seconda fase delle grandi scorpacciate dei lieviti flor.
Di questi ultimi è stata perfino tentata una storia evolutiva assi interessante, secondo la quale la mutazione genetica fatidica dovrebbe aver avuto inizio o in Libano o nel sud-ovest della Spagna. Una sorta di mappa immaginaria e favolosa la si può tratteggiare anche osservando i luoghi dove i vini ossidativi venivano e vengono prodotti.
Ad eccezione dei vini dello Jura, le altre tipologie paiono accomunate dalla vicinanza del mare e di porti, come se ci fosse un legame fra ossidatività e “navigabilità” di tali vini. Il che sarebbe un altro coerente indizio per l’ipotesi di Johnson del vino di Archestrato come di un vino da flor.
Se molti sono ancora i misteri di tale insolita e prodigiosa vinificazione, tante sono le scoperte e le storie che possono accompagnare e illuminare gli assaggi di vini ossidativi. Ne condivideremo ancora parecchie, con voi.
Nel frattempo perché non iniziare a stappare?
Proponiamo due etichette. Rimanendo in ambito isolano, come il vino di Lesbo, entrambe provengono dalla Sardegna. Può destare curiosità la particolare bottiglia della prima, adornata da una serigrafia raffigurante la pavoncella sarda, che secondo alcune leggende, risorgerebbe dalle proprie ceneri: una doppia vita, come i lieviti flor.
Il vino rimane in botte scolma almeno per 5 anni, eppure ha una freschezza inaspettata ed incredibilmente giovanile! (vernaccia di oristano)
Le sapienti mani di Davide Orro e della sua famiglia curano tutte le fasi della produzione, guidate da l’obiettivo nobile e coraggioso di riportare in auge un territorio ed un vino tradizionale con idee innovative e assolutamente moderne. Sono passati pochi mesi dalla nostra visita al museo da lui ideato, ma è stato di nuovo arricchito ed ampliato, da renderlo meritevole di un’altra visita (cf. https://www.ecomuseovernacciaoristano.it).
La seconda etichetta, per innamorarsi da subito dei vini ossidativi, viene dalla storica cantina di Bosa, fondata da Gianbattista Columbu. Fiori di assenzio e liquirizia, il naso racconta la macchia mediterranea che circonda i vigneti, e il mare che riflette la luce della costa orientale dell’isola: un terroir benedetto, dove oggi Gianmichele e Vanna resistono, felici di aver come fiore all’occhiello della loro produzione di nicchia un vino fatto apposta perché sia bevuto insieme e sia parlato.
E, di certo, ne parleremo ancora. (malvasia di bosa)