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Un insegnante che parlava anche la lingua del vino

Alla fine degli anni ’50 un insegnante di italiano originario della Barbagia, impegnato con passione nello sforzo di alfabetizzazione rurale, si innamora di una ragazza di Bosa. Da quell’incontro e da circostanze provvidenziali, nasce un tale attaccamento alla famiglia e al territorio, alle tradizioni e al vino, che ha della leggenda; tanto da meritargli una parte importante nel celebre film Mondovino.

“Custu binu cheret chistionadu”: nel sardo parlato da Gian Battista Columbu, significherebbe “di questo vino si deve parlare”. Il patriarca dell’odierna Malvasia di Bosa, colui che traghettò l’antica tradizione di vinificazione in un’azienda agricola moderna, si riferiva ad un piacevole costume dei Bosani.             

Quello cioè di ritrovarsi nella cantina di uno o dell’altro, la domenica mattina dopo la messa, per discutere della qualità e del valore della Malvasia dell’ospite di turno. Un vino dalle mille sfaccettature, per apprezzare il quale occorre il concorrere di amici, di esperti, di ospiti, che tutti dicano la loro, sottolineino particolari, raccontino impressioni.

Il vino dell’incontro e della festa! Il vino giusto, di cui parlare e con cui parlare, da interrogare per scoprirne i misteri. Perché se è vero che l’odierna microbiologia ci ha svelato alcuni segreti del prodigio dei lieviti flor che quel vino rendono unico (cf. qui), rimane sempre tanto fascino nascosto e imponderabile, nel silenzio di botti scolme lasciate mesi e mesi a sé stesse.

Sì, questo vino può parlare!

Ha tantissime cose da raccontare, non solo per il suo processo di vinificazione, così originale; ma pure per quel che riguarda il suo nome e la sua storia.

La Malvasia di Bosa è infatti una delle svariate varietà di una grande e storica famiglia. Anche se solamente con quella delle Lipari e con il Greco bianco di Bianco è geneticamente identica, essa come le altre Malvasie è legata a quello che oltre ad essere un vino fu anche un vero e proprio brand di altri tempi (cf. qui).

 

Ridestare un “senso” trascurato

Ecco perché oltre all’indubitabile piacevolezza di bevuta e allo stimolo felice di sensazioni gusto-olfattive, davanti ad un calice di Malvasia di Bosa occorre destare un ulteriore senso.

Cioè, non basta solo la vista, per scrutarne colore e lucentezza. Non solo l’olfatto, per scoprire richiami odorosi. Non solo il gusto, per apprezzarne sapore e profondità.

Ci vuole anche l’udito! Sì, occorre ascoltare. E non lo diciamo noi: ascoltate (!) cosa dice il grande Attilio Scienza:

Annusare il sughero subito dopo aver stappato una bottiglia, accostare il naso al bordo di un bicchiere, alzare il calice e osservare colore e limpidezza del vino; sono gestualità ricorrenti per ogni amante del vino. Vista e olfatto sono apparentemente i soli due sensi ad essere costantemente sollecitati durante la degustazione, ma se solo accostiamo anche l’orecchio al bicchiere veniamo portati in un mondo lontano fatto di guerre, di migrazioni di popoli, di razze che si mescolano fino a non esistere più, come un confine, che non è più limite e ostacolo ma punto d’incontro, un’opportunità di creare qualcosa di nuovo e originale.

Storie di navi, di tempi antichi, che hanno solcato mari lontani e cariche di ogni bene sono alla fonda in attesa di entrare in porto e svelare i propri tesori. Se lo stiamo a sentire il vino ci spiegherà quante volte ha visto cambiare il clima: passando dal caldo al freddo; quante volte si è dovuto abituare e riabituare di nuovo alle sue stravaganti mutevolezze. Una storia avventurosa e sul cui sfondo si stagliano orgogliose le grandi dinastie di viti; quelle dei grandi vitigni che ancora sono la base delle eccellenze enologiche. (Intervista a Divina Vitale del blog wineattitude, 17/03/2019; per il testo completo cf. qui)

 

Racconti che seducono, per sognare con un calice

Certi vini rapiscono! E con essi, e con chi li produce, ci si perderebbe volentieri in altre dimensioni, in cui lo spazio e il tempo si dilatano.

Ricordo come oggi la prima visita a Gianni e Vanna. Avevamo strappato un breve appuntamento, ritagliando un pochino del loro prezioso tempo, un’assolato primo pomeriggio dell’estate sarda.

Rimanemmo invece fino al tramonto, e quando ci accorgemmo del tempo trascorso ci parve di aver sognato. Solo l’inconfondibile e pungente profumo di elicriso, i cui precursori aromatici presenti nel calice si fondevano con i fiori dei cespugli che effettivamente lambivano il viale verso il cancello della tenuta, ci confermavano che tutto ciò era reale. Così, da allora in poi, anche il fiore dell’assenzio selvatico è capace di parlarmi. E quasi sempre mi parla di un vino unico (cf. qui)