Nell’estate 2020 viaggiammo in Sardegna, non per tuffarci nel suo mare cristallino, ma per una settimana di full immersion nelle cantine e nella cultura dei vini ossidativi della costa occidentale dell’isola.
Per certi versi, era un mondo a noi quasi del tutto sconosciuto. Eppure, qualche idea preconcetta la avevamo. Sentori e sapori del vino ci costringevano a rimodulare i nostri canoni gustativi, e lo facevamo volentieri.
In testa, però, rimanevano alcune considerazioni teoriche, mandate a memoria durante lezioni e corsi, in base alle quali avevamo alcune ipotesi di abbinamento. In parte già verificate, altre che avemmo il piacere di verificare insieme ad alcuni produttori: al cospetto di vignaioli inizialmente increduli, fu davvero emozionante assistere alla loro sorpresa, nel gustare di nuovo il loro vino abbinato a cibi cui non avevano mai pensato prima.
Analogo scetticismo, però, lo provammo anche noi di fronte alla proposta, fattaci da un giovane produttore di Vernaccia di Oristano, di abbinare le sue etichette con frutta fresca di stagione, anguria o melone.
Scetticismo e sorpresa, perché fra sommelier circola un dogma: con la verdura e la frutta a sé stanti non si abbina nessun vino. In quell’occasione, tuttavia, non potemmo fare tale esperimento: così rimase in sospeso quell’insolito accostamento, che Davide Orro ci assicurò perfettamente riuscito e piacevolissimo.
Sorrideva, come fa spesso, e questo poteva indurci a credere che ci apparecchiasse uno scherzetto. Allo stesso tempo, come fa altrettanto spesso, era fermo e sicuro di quello che diceva.
Quella circostanza mi è tornata in mente tempo dopo, leggendo alcune note del professor Tommaso Montanari, celebre divulgatore di storia e di cultura dell’alimentazione.
Derivata dai principi della medicina ippocratica e galenica, la dietetica medioevale intendeva – semplifico moltissimo – la digestione come un processo di combustione, per la quale un eccesso di cibi classificati come freddi sarebbe stato dannoso. Beninteso, il binomio freddo/caldo non si riferisce alla temperatura di servizio, quanto piuttosto ad intrinseche qualità.
Ad esempio, la freschezza e l’acquosità di troppa frutta potrebbero rischiare di alterare il naturale calore dell’organismo. Secondo questa visione, gli umori corporei debbono essere in equilibrio, e per non alterarlo, cibi dalla “frigidità” eccessiva occorre che siano temperati, da una cottura vera e propria o almeno dall’accostamento con il vino, bevanda dall’intuibile qualità calda.
Fra i curiosi aneddoti che Montanari cita ad illustrazione delle sue narrazioni, ricordiamo l’abitudine della pera cotta nel vino e un’usanza – a noi finora sconosciuta – tipica della Francia, di consumare il melone con un bicchiere di Porto o di un vino dolce di gran corpo (M. Montanari, Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Bari 2009, 33-39).
Capite come leggendo le pagine di Montanari abbia dovuto immediatamente ricredermi su un’abbinamento a primo acchito giudicato improbabile: che anche l’anguria assieme alla Vernaccia di Oristano trovino la loro origine in saperi antichissimi, con una coerenza e visione olistica molto più originali e affascinanti di tante idee di abbinamenti strampalati e bizzarri?
Rimaneva solo la controprova delle sensazioni organolettiche provocate dall’accostamento in questione. E dobbiamo essere sinceri: per questa volta abbiamo rinunciato a compilare la scheda tecnica dell’abbinamento, utile sì a rendere evidente e ragionevole l’accostamento, riuscito o meno.
Eravamo in compagnia di amici bevitori: il consenso è stato unanime e contagiosa la sensazione di benessere e di piacevolezza. Ed è bastato questo. Esperienza ed erudizione convergevano con la soddisfazione del gusto! Un vero abbinamento da sapiens!!
D’ora in poi potremo sorprendere altri commensali, proponendo loro un vino anche per la frutta. E lo potremo fare non perché avvinazzati fino all’estremo, fino all’ultima portata, ma con un consapevolezza culturale nuova ed interessante.
Sebbene alcuni “cocomerari” romani amici ci abbiano una volta aperto il cuore svelandoci segreti e stili di vita di un vero venditore di angurie, non possiamo ora dare indicazioni su dove e come acquistare un buon cocomero. Possiamo indirizzarvi, invece, verso un’ottima Vernaccia di Oristano(qui), ed augurarvi un piacevolissimo ristoro.
Una fra le tante sensazioni e suggestioni provenienti dalla visione della trilogia cinematografica del Signore degli Anelli, corroborata da quella posteriore de Lo Hobbit, come pure dalla lettura dei rispettivi libri, è la nostalgia per la vita piacevole e divertente degli Hobbit, celebre per le ghiotte scorpacciate innaffiate da fiumi di birra e concluse da solenni fumate di erba pipa. Uno stile di ben vivere contagioso: pure il saggio e austero Gandalf è un’estimatore del “Vecchio Tobia”, la più famosa “marca” di erba pipa della Contea, ma anche Nani e Uomini, perfino Elfi, apprezzano con gusto birra e fumo.
Tutto sembra combaciare con l’immagine comune e forse superficiale degli usi anglosassoni. Se pensiamo ad un pub londinese, subito immaginiamo pinte e pinte di birra. In realtà, le cose non stanno proprio così; almeno nei secoli passati, a Londra era il vino ad innaffiare le gole assetate. L’Inghilterra è stata probabilmente la nazione che maggiormente ha influenzato il mercato del vino, e ancora oggi Londra è sede della più autorevole istituzione nell’ambito della sommellerie, l’Institute of Masters of Wine
In effetti, tutta quella birra in Tolkien lascia un pochino perplessi, nonostante si conosca il nome del suo pub preferito, ad Oxford, l’Eagle and Child, dove si incontrava con i suoi sodali.
A ben vedere, tuttavia, anche il vino trova ampio spazio, e, se nei testi originali è certamente più facile scoprirlo in tante pieghe e dettagli, pure nella resa cinematografica il vino ha il suo posto, di primo piano per di più. In particolar modo, sono i barili di vino – vuoti per la verità – ad essere al centro della scena della fuga di Bilbo e dei Nani dalla prigionia degli Elfi Silvani.
Quei barili rifornivano la cantina del Re Thranduin, il quale aveva gusti raffinati e peculiari. Il vino che si consumava alla sua tavola infatti era quello, ben più forte dei vini comuni, che proveniva dalle lontane terre di Dorwinion. Le vie commerciali di tale vino erano soprattutto mari, laghi e fiumi, e il traffico di barili era proprio il trait d’union fra il regno degli Elfi e la più prossima città degli uomini, Pontelagolungo, che nella vicenda dello Hobbit finirà poi distrutta dal famigerato drago Smaug. I barili vuoti venivano restituiti agli uomini della città sul lago sfruttando la corrente, e di fatto così riescono a fuggire i nani. Più complicato era il viaggio di andata con i barili pieni. Tolkien ci racconta come venissero legati insieme quasi a formare zatteroni poi spinti con pertiche e remi, o anche caricati su barche piatte che risalivano il fiume. Su come invece da Dorwinion giungessero alla città non sappiamo molto, si accenna a navi e a strade.
Tornando invece al vino, sappiamo che era destinato esclusivamente ai banchetti del re, e lo si doveva bere in coppe più piccole rispetto ai larghi boccali comuni. Così, quando con la scusa di assaggiare la nuova partita di vino, prima di servirla al banchetto del re, maggiordomo e capo delle guardie bevono esageratamente, ben presto si addormentano ubriachi, e Bilbo può mettere in atto il suo bizzarro piano di fuga. Sempre a proposito del nostro Hobbit, sappiamo, fra l’altro, che il padre imbottigliò un’annata eccezionale di “Vecchi vigneti”, una riserva celebre, del Decumano sud della Contea. Particolarmente longevo, perché le numerose bottiglie oltre ad essere usate dalle due generazioni di Baggins, accompagnarono anche i compleanni di Frodo fino alla sua partenza dalla Terra di Mezzo.
Nella saga abbiamo quindi sia delle denominazioni d’origine, diremmo noi, sia vini che nel loro trasporto richiamano ciò che ben conosciamo: l’immagine delle zattere di barili non evoca forse il trasporto, in discesa e sfruttando la corrente fluviale, del Porto dall’alta valle del Douro alla città atlantica, da dove poi riparte per mille destinazioni. Certo, in Tolkien il flusso è invertito: a scendere lungo il fiume sono i barili vuoti, mentre quelli pieni risalgono la corrente.
Per saperne di più sui vini “navigati”
Da “ossidato” a “ossidativo”: se un difetto diventa grande pregio
L’accostamento al Porto sarebbe dunque calzante e appropriato, conoscendo poi quanto l’Inghilterra amò il nettare portoghese. Eppure, ci piace evocare e suggerire insieme alla (ri)lettura delle più importanti e belle pagine del Signore degli Anelli un altro vino navigato: una buona bottiglia di Madeira; forse corrisponde meglio all’idea di un vino da una terra lontana e misteriosa, in botti e su vie d’acqua leggendarie. Madeira, di cultura vinicola portoghese, (quasi) Africa in realtà, è ideale come immagine di una terra esotica, feconda e generosa come la tolkeniana Dorwinion.
Con un calice di Barbeito, ci sediamo dunque alla tavola del Re degli Elfi, e immaginandoci pure noi nella Compagnia dell’Anello, brindiamo a Tolkien e al suo genio, senza dubbio ispirato anche dal buon bere. Cullati fra le sensazioni aspre e forti degli aromi e la successiva morbidezza del gusto, sarà più facile immergersi nelle mirabolanti vicende della Terra di Mezzo…
Buona lettura, e prosit!!