Sembrava non dovesse arrivare mai questo momento, e invece ci siamo.
L’ARSIAL, ente che promuove lo sviluppo e l’innovazione del sistema agricolo e agro-industriale del Lazio insieme al CREA, principale Ente di ricerca italiano dedicato alle filiere agroalimentari, hanno organizzato una Masterclass gratuita dedicata ai vini sperimentali ottenuti dalla vinificazione di vitigni autoctoni e resistenti.
Titolo degli incontri è “La biodiversità incontra i vitigni resistenti”. La degustazione, in programma il 28 novembre e il 5 dicembre 2023 nelle sede Azienda Sperimentale Arsial di Velletri (RM), sarà divisa in due sessioni distinte, e condotta da tecnici Arsial e Crea/Ve (cf. qui il comunicato stampa ).
Tutti i vini sono ottenuti dalla vinificazione delle uve prodotte nel “Vigneto Biodioversità”, impiantato all’interno dell’azienda Arsial di Velletri. Le varietà resistenti impiegate per il taglio, nella misura massima del 15%, sono il Soreli per i bianchi, il Carbenet Volos e il Cabernet Eidos per i rossi.
Qualcosa si muove
Già lo scorso anno avevamo partecipato alla prima degustazione delle microvinificazioni di varietà resistenti realizzate dal Centro Enologico Sperimentale di Velletri. Per ora son 10 i vitigni ammessi alla coltivazione nella Regione Lazio: Fleurtai, Soreli, Sauvignon Kretos, Sauvignon Nepis, Sauvignon Rytos, i bianchi; e i rossi Julius, Cabernet Eidos, Cabernet Volos, Merlot Kanthus, Merlot Khorus. L’assaggio dei vini ottenuti dalle microvinificazioni aveva mostrato ottime speranze per l’avvenire.
Il nostro punto di vista
Ci rallegra molto che anche la Regione Lazio abbia aperto ai Piwi, soprattutto considerando le difficoltà incontrate, particolarmente in questa zona, in annate come quella appena trascorsa. Certamente la messa a dimora di varietà resistenti è una risorsa strategica importante per una gestione sostenibile del vigneto.
Ci auguriamo che i bravissimi produttori laziali sappiano presto trovare, al pari dei colleghi del nord Italia, le giuste chiavi interpretative per comunicare sempre più e sempre meglio la grande qualità che contraddistingue da secoli il vino di casa nostra. Attendiamo con impazienza il giorno in cui potremo introdurre nella carta di Vino Sapiens delle ottime etichette Laziali da varietà resistenti (nel frattempo, scarica la nostra piccola guida, qui.)
Ci congratuliamo, già da ora, per il lavoro di ricerca condotto fin qui dai protagonisti di questo settore. Ad astra!
Si è riunita nelle giornate del 8 e 9 novembre 2023 la commissione di valutazione per la terza edizione della Rassegna Piwi, organizzata dalla Fondazione E. Mach. Il Concorso si propone come opportunità per valorizzare e promuovere la qualità dei vini in gara e le loro peculiarità territoriali.
Sono state più di 100 le etichette inviate dai produttori di vini da varietà resistenti, giudicate da 30 commissari: enologi, enotecnici, giornalisti, sommelier e ricercatori afferenti al mondo agroalimentare si sono incontrati nell’aula Versini del palazzo della Ricerca e Conoscenza della FEM per procedere alla valutazione dei vini, raggruppati in sei diverse categorie.
I vini da varietà PIWI sono ottenuti da uve prodotte da piante che, dopo numerosi incroci e selezioni, hanno dimostrato capacità di resistenza alle principali malattie fungine, e quindi richiedono un numero ridotto di interventi fitosanitari. Il Registro Nazionale delle Varietà di Vino contempla attualmente 36 varietà PIWI e la superficie coltivata con queste varietà supera alcune migliaia di ettari, per lo più nelle regioni del nord-est; in Veneto si trova il numero più elevato di ettari di vigneti; alcuni appezzamenti si trovano anche Emilia e Marche, mentre Lazio e Piemonte sono state le ultime regioni ad autorizzare la coltivazione di queste varietà nelle loro superficie viticola.
Nell’organizzare tale evento, la FEM intende valorizzare anche l’attività di ricerca e sperimentazione sulle varietà tolleranti che recentemente ha portato ad iscrivere del Registro nazionale delle varietà di vite quattro nuove selezioni provenienti dall’attività di miglioramento genetico, con la collaborazione del consorzio CIVIT:. Sono le seguenti: Termantis, Nermantis, Charvir e Valnosia. Relativamente ad esse, in Trentino, poi, il progetto VEVIR ne ha certificato l’ottima prestazione a livello di coltivazione, accanto ai già noti Solaris, Souvignier gris, Bronner, Palma, Johanniter e Pinot Regina.
La cerimonia di premiazione è in programma venerdì 1° dicembre, nell’ambito di un seminario scientifico in diretta streaming sul canale youtube FEM a cui interverranno due tra i più illustri esperti mondiali del settore: il prof. Reinhard Töpfer, direttore del Julius Kühn Institut di Geilweilerhof e il prof. Philippe Darriet, professore di enologia all’Università di Bordeaux e direttore dell’Institute des Sciences de la Vigne et du Vin di Bordeaux (qui il programma della giornata).
Quest’anno è stata la terza volta che Vino Sapiens ha partecipato a sessioni di degustazione presso la Fondazione Mach. In estate, in particolare, avevamo avuto modo di assaggiare 12 campioni di altrettante microvinificazioni sperimentali ad opera della cantina del centro di ricerca (ne avevamo parlato qui).
Nei giorni della rassegna abbiamo aggiunto un tassello ulteriore, con l’assaggio comparato di numerosissime etichette che già sono sul mercato. La degustazione estiva ci aveva convinto della notevole potenzialità qualitativa dei vitigni, anche delle ultimissime nuove varietà registrate. Gli enti di ricerca e di propagazione delle varietà stanno consegnando ai vignaioli vitigni interessanti e atti a produrre vini di qualità, oltre alla loro dote di resistenza alle malattie. Spetta ora ad essi esprimere il loro talento e la loro sensibilità, nella coltivazione e nella vinificazione, scegliendo luoghi di giacitura, sistema di allevamento, protocolli enologici e interventi di cantina. La rassegna è stata un’occasione per avere uno sguardo generale ed imparziale (i vini erano serviti dagli studenti di Fem rigorosamente coperti e anonimi). In attesa della pubblicazione dei risultati e delle valutazioni complessive, si possono trarre alcune conclusioni.
Il fatto stesso che si sia organizzata una rassegna di questo tipo è un dato positivo. La produzione di vini da uve Piwi infatti ha raggiunto livelli di qualità continuativa tale da rendere sensata una graduatoria di merito. Non si tratta più di prodotti sporadici. Come tali, i vini che escono sul mercato possono essere valutati con rigore e obiettività. Nella valutazione complessiva non si può dunque assolutizzare la varietà resistente come criterio unico, prescindere dalla gradevolezza. Un vino da uve PIWI può essere ben fatto, o avere qualche difetto. Tuttavia, nel compararne il livello qualitativo, si dovrà tener conto di espressioni organolettiche in certo senso nuove. Nel valutare la qualità di un vino a base chardonnay, un esperto potrà fare affidamento su canoni consueti e ripetutamente tracciabili. Nel caso di questi vini, invece, non esiste ancora un termine di paragone consacrato da decenni di tradizione.
Una degustazione valutativa da parte di una giuria così variegata e complessa non può che essere un passo in avanti notevole. Così come lo sono, analogamente, molteplici eventi di formazione e degustazione che si vanno diffondendo in diversi luoghi. Il confronto con la critica enogastronomica e con i diversi attori della filiera della comunicazione e della vendita, aiuterà ricercatori e produttori a cogliere al meglio le potenzialità dei vitigni. Ci riferiamo non solo all’ambito prettamente agronomico ed enologico, ma pure alle questioni legate all’appeal generato dalle tematiche sulla sostenibilità. Non da ultimo, si dovranno rivedere le problematiche intorno al posizionamento sul mercato di tali vini. Insomma, c’è molto lavoro da fare, perché da quasi sperimentali e rare, le bottiglie arrivino stabilmente sulle tavole del consumatore finale. Che, di fatto, è quello che più interessa.
Purtroppo, sono le stesse zone dove i vitigni sono allevati ad ospitare, di solito, incontri, convegni, degustazioni a tema; pare che il centro e il sud Italia siano meno interessati o comunque meno toccati dal fenomeno delle varietà resistenti (cf. qui). Per questo, da romani, ci ha fatto molto piacere toccare con mano il fermento di questo mondo di frontiera. La stima e l’amicizia dimostrata verso Vino Sapiens ci hanno incoraggiato. Fra l’altro, nuovi e cordiali contatti con i player di riferimento nella comunicazione di questi vini sono stati davvero interessanti, per future iniziative e collaborazioni. Ma, prima, attendiamo con curiosità la proclamazione dei risultati del concorso, con la pubblicazione delle etichette vincitrici e delle menzioni di merito.
Ora più che mai, #staysapiens.
Siamo in attesa che inizi il nostro turno di degustazione. Intorno a noi 40 tra produttori, vivaisti, accademici ed enologi. Siamo ansiosi di poter partecipare, insieme a tanti “tecnici” del settore, all’assaggio… del futuro. Ci chiediamo se finalmente ci sarà un buon riscontro anche per i vini ottenuti da varietà resistenti a bacca rossa, che sapevamo essere ancora un passo indietro rispetto ai bianchi.
Già l’anno scorso, di questi tempi, entravamo finalmente nella cantina dove sono conservate alcune migliaia di bottiglie con le microvifinicazioni sperimentali curate all’Isituto di San Michele all’Adige. Si tratta del risultato di centinaia di piccole vendemmie, in media 30 kg d’uva ciascuna, dei vigneti dove si testano le nuove varietà ottenute da incroci naturali, per impollinazione.
Allora era la prima volta che assaggiavamo un campione da uve piwi (per una generale descrizione della categoria, cf. qui) vinificato secondo un protocollo semplice e standard, studiato semmai per evidenziare al massimo le qualità e le potenzialità del vitigno. Al netto degli accorgimenti e delle intuizioni che ogni produttore utilizza per ottenere il vino che meglio incontri la sua sensibilità. Insomma, la varietà nuda e cruda.
Nell’estate scorsa, ci introduceva – soli – in questa sala del tesoro, Marco Stefanini, il Direttore del Centro per il miglioramento genetico della vite. Con lui avevamo già visitato altre volte il semenzaio, la serra e la “sala delle torture”, dove le nuove varietà sono seminate, germogliano e sono messe a confronto con il “nemico” come non mai. In un ambiente dove la pressione e l’attacco dei funghi è al massimo, favorito da umidità e altri fattori creati artificialmente per stressare le piccole piantine. Solo quelle che resistono sono poi di fatto messe a dimora in campo e studiate dal punto di vista agronomico. Alla fine di ulteriori selezioni, si vinificano le uve. Anche nei campi sperimentali eravamo già stati accompagnati più volte. Rimaneva l’ingresso in cantina e nella sala degustazione. Finalmente avemmo una prima impressione.
Oggi un’altra e più istituzionale occasione, organizzata presso la Fondazione Mach in collaborazione con Civit (Consorzio Innovazione Vite) di Trento. 12 assaggi di microvinificazioni della vendemmia 2022, sempre con Marco Stefanini, questa volta accompagnato dal Responsabile di cantina, l’enologo Tomás Román Villegas. La degustazione è stata di altissimo livello tecnico ed enologico. Di ciascun vino presentato ci erano mostrati i dati agronomici del vitigno e della vendemmia, insieme alle analisi di laboratorio dei campioni. Potevamo così verificare con più obiettività le sensazioni organolettiche percepite durante gli assaggi valutativi.
Circa 80 partecipanti, ad evidenza di un aumentato interesse e di più ampia discussione scientifica intorno alle varietà resistenti. 12 i vini presentati, di cui 6 da uve a bacca bianca e 6 a bacca rossa. Palma, Charvir, Valnosia, Sauvignier Gris, Pinot Regina, Nermantis, Termantis, i nomi delle varietà già “battezzate”, le prime 4 a bacca bianca, le altre a bacca rossa. Le rimanenti 4 hanno ancora nomi in codice. Alcune di esse sono varietà resistenti piramidizzate, ossia con fattori di resistenza alle malattie multipli e accentuati. Proprio il non esiguo numero di incroci presentati è significativo. Oltre alla verificata ed effettiva resistenza in vigneto – per ricordare cosa ciò significhi in termini di sostenibilità, si può vedere qui – , e alla sempre più alta qualità organolettica dei vini prodotti da queste sperimentazioni, si fa ricco e davvero interessante il campionario in cui muoversi. Tutto ciò si traduce nel fatto che il viticoltore potrà, supportato dalla grande mole di dati analitici a corredo e dall’assistenza del personale di Fondazione Mach, valutare la varietà, o le varietà, corrispondenti al suo territorio e alla tipologia di vino che ha in cuore di fare.
Certamente il fascino di aver potuto testare, attraverso l’assaggio, le varietà in se stesse, nude e senza fronzoli. Senza interpretazioni personali del singolo produttore e senza influenza di particolari e specifici terroir ma, come dire, con tutta e sola la potenzialità varietale. Attraverso una vinificazione eseguita con lieviti neutri, medesimi per tutti i campioni e senza altre aggiunte di cantina, fatta eccezione per i necessari solfiti di conservazione. Tutto ciò, per un assaggiatore professionista, è sempre un’occasione di grande crescita. Di questo siamo molto grati.
Inoltre, la gioia di aver potuto constatare che anche le varietà a bacca rossa, infine anch’esse, hanno dato vita a vini di alto livello. Ed erano solo delle microvinificazioni! È stato davvero come affacciarsi in una nursery piena di bimbi appena nati: commovente e bellissimo. Chissà cosa accadrà quando queste nuove varietà troveranno una dimora appropriata e vasta che ne amplifichi le potenzialità. Quando incontreranno il coraggio di un produttore appassionato e illuminato che ne usufruirà quale strumento per esaltare il territorio in cui vive, trasformandole in un vino indimenticabile. Insomma, abbiamo assaggiato un futuro che è sempre più a portata… di calice.
Qualcosa si muove. Anche se il main-stream di settore fatica ad accorgersene, una incipiente novità si fa strada. Nei mesi passati sono stati celebrati diversi convegni dedicati al tema (cf., ad es., qui, la registrazione di una giornata di studio intorno ai vini da uve piwi), e non è più così infrequente che si possano intravedere etichette del genere nella comunicazione di settore.
Usiamo qui non a caso, anche se non del tutto propriamente, la parola genere, perché vogliamo argomentare di classificazione botanica: stiamo parlando di nuove varietà ottenute da incroci, almeno all’origine, fra diverse specie di viti, l’europea e altre, come fra diverse sottospecie, sativa e silvestris (qui un’introduzione generale al tema).
Ebbene, ormai si è appurato, con il corredo di dati numerici certificati, che l’impatto ambientale e la sostenibilità, agronomica, aziendale e sociale, è assolutamente a favore dell’allevamento di questi nuovi vitigni. Siamo invece all’inizio del passo successivo: provare, e convincere, che oltre ad essere sostenibili, iper-biologici, puliti, questi vini siano anche, e soprattutto, buoni. Ci si inizia a muovere quindi nel campo della qualità, al livello dell’eccellenza.
Ci pare di aver capito che la tematica sia più avvertita dai viticoltori, dal mondo dei ricercatori e dei vivaisti, e dalla ricerca accademica; agli appassionati e ai consumatori l’interesse giunge di riflesso. Ma non si tratta solo di differenze sociologiche. Forse ancora più rilevante è la differenza geografica. Del resto, non c’è da stupirsi che laddove il clima sia in genere più piovoso e umido, là saranno più numerosi i viticoltori interessati a varietà che non necessitano di numerosi trattamenti di fitosanitari. In effetti, al nord Italia i vini da varietà piwi sono entrati anche nel portfolio di grandi agenzie di distribuzione. Mentre al centro e al sud questi nuovi vitigni sono ancora fuori dagli elenchi di quelli autorizzati per la vinificazione. E’ pur vero che le odierne uve piwi sono il risultato di ricerche e sperimentazioni in area germanica e svizzera. I primi contatti italiani sono stati con il Trentino Alto Adige e Veneto. Ora anche in Lombardia sono possibili, e ammessi dal legislatore, l’allevamento e la conseguente produzione di vino. Insomma, il dado è tratto, ma il Rubicone non è stato ancora attraversato.
Nel corso dei nostri viaggi alla scoperta di cantine ci è capitato di visitare la Fondazione E. Mach, di San Michele all’Adige (Tn). Questo centro di ricerca è un’eccellenza e un riferimento, nel settore dell’ibridazione e della sperimentazione di nuove varietà. Si è instaurata subito una relazione di confidenza e di reciproca stima con il Direttore della sezione di miglioramento genetico della vite, durante la visita in laboratorio, in serra e nei vigneti sperimentali. Così, ci è parso immediatamente evidente che fosse lui, il prof. Marco Stefanini, la persona giusta da contattare quando alcuni dirigenti del CNR di Tor Vergata ci chiesero se la viticoltura avesse qualcosa di nuovo da dire riguardo al tema della sostenibilità. Con la discrezione di chi sa di muoversi in terreni non abitualmente frequentati, Vino Sapiens ha potuto così contribuire ad un evento peculiare: un convegno riservato al personale interno al Centro, con diversi focus, fra i quali trovava spazio l’agronomia e l’enologia. Il prof. Marco Stefanini ha potuto così illustrare come la sostenibilità ambientale e sociale siano declinate nella prospettiva di una viticoltura moderna e innovativa. Fra gli altri, un dato misurabile, l’impronta carbonica, dovrebbe perlomeno abbattere la coltre di supponenti pregiudizi, lasciando qualche interrogativo a scalfire la falsa tradizione, che si oppone alle nuove varietà.
Fra i partecipanti alla conferenza, perlopiù ricercatori, abituati al passaggio dalle ipotesi teoretiche alla verifica sperimentale, l’effettiva bontà di questo nuovo approccio alla viticoltura ha potuto quindi essere presentata in un excursus storico-scientifico, con dati alla mano e schede illustrative. Ma anche la controprova del piacere edonistico all’assaggio è stata ampiamente superata. E’ stata cura di Vino Sapiens servire e guidare all’assaggio di tre campioni di vini da uve piwi, offerti dal Consorzio Piwi Alto Adige.
Vini dalla pulizia e dal nitore impressionanti; colpiscono già dai colori, brillanti e luminosi. Sentori complessi e netti. Nella loro diversità riflettono veracemente i loro territori, restituendone profumi e mineralità. Assolutamente gastronomici, dall’interessante e piacevole trama tannica, che li rende fruibili con svariati abbinamenti. Insomma, esemplari riuscitissimi di adattamento fra nuove varietà e terroir di antichissima tradizione viticola.
Se il convegno presso l’Area di Ricerca del CNR di Tor Vergata era a porte chiuse, rivolto esclusivamente ai ricercatori accreditati, l’11 novembre ci sarà un’ulteriore ed importante occasione, questa volta aperta al pubblico di appassionati. Il Prof. Marco Stefanini sarà ospite di Vino Sapiens, nella sala di degustazione, per guidare una masterclass sulle varietà resistenti, seguita dalla degustazione di sei assaggi di vini da uve piwi di diversi territori.
Chi non prova un certo sospetto nei confronti di qualcosa che sia definito come paradosso o paradossale? Eppure, l’etimologia di per sé non ha alcun senso negativo: “asserzione contraria all’opinione generalmente accettata come vera”. Ossia, si intende che a margine dell’opinione comune, possa esserci l’intuizione e la visione di un genio, che non si accontenti di abitudini ripetitive e che conduca a conquiste culturali innovative. Esso, il paradosso, spiazza false certezze e sbaraglia lo stanco e consueto standard. La nuova realtà non esisteva prima magari solo perché nessuno l’aveva mai immaginata.
Eppure, un vino definito paradossale non smette di far pensare ad un produttore eccentrico e fantasioso, bizzarro e sregolato. Ma nel nostro caso è tutto il contrario. Non avevo mai sentito un vignaiolo che mi abbia confidato, come fece Mario Pojer qualche anno fa, di tenersi aggiornato, leggendosi tutte le tesi di laurea in enologia che venivano discusse a San Michele, dove fu alunno pure lui. Tantomeno, non ho mai visto raccolte e riutilizzate le più varie tradizioni e invenzioni enologiche di tutto il mondo, come nella gamma della cantina di Faedo.
Dalla fortificazione del vino al miglioramento genetico della vite, dalle macerazioni prolungate al controllo di atmosfera e temperatura in fermentazione, dalla tradizione del vin de reserve alla vendemmia tardiva botritizzata, non c’è eccellenza che Pojer e Sandri non abbiano studiato e “rubato” dai migliori, in ogni parte del mondo. Da esperti distillatori quali sono, hanno imparato davvero bene l’arte di “lambiccare” e rendere utile ogni informazione raccolta dalle più vaste esperienze enologiche.
La curiosità e il desiderio di apprendere e reinventare è parte del loro carattere intraprendente, ma si sono in verità alimentate di un sogno antico. Un’intuizione iniziale, forse romantica, seguita da anni ed anni di ricerca e sperimentazione.
Produrre un vino solamente frutto dell’uva, senza sostanze esogene ed additivi di sorta.
Può essere una battuta. Eppure, se si ha la pazienza, e il fegato, di documentarsi sulle sostanze lecite e permesse nella vinificazione, anche quella di vini che amano definirsi biologici, si smette immediatamente di scherzare! Acidi di varia composizione, albumina d’uovo, colla di pesce, gomma arabica, gelatine, chips di legno, bentonite, enzimi, liofilizzati…., chi più ne ha, più ne metta.
Di vendemmia in vendemmia, nella cantina di Faedo sono state invece messe a punto tecniche e accorgimenti per arrivare ad una vinificazione pulita e non invasiva. Lavaggio delle uve, raffreddamento dei grappoli, pressatura in assenza di ossigeno… e tanti altri brevetti tecnici, hanno consentito a Mario e Fiorentino di arrivare ad un sostanziale azzeramento degli interventi chimici nella vinificazione. Avviene senza cosmesi e ritocchi, seppur con un’attenzione altissima alla qualità e alla tecnica.
Rimaneva lo scoglio dei trattamenti in campagna. Ma le buone pratiche e le buone amicizie vengono in aiuto.
Da buoni bevitori, infatti, gli aggiornamenti per Pojer e Sandri sono anche le bottiglie che amici e colleghi portano loro in assaggio. Così, tramite Rudy Niedermayr, conoscono il solaris, varietà naturalmente resistente a peronospora e oidio. Ottenuta con incroci per impollinazione, è frutto di decenni di tentativi effettuati nel centro di ricerca di Friburgo (vedi qui per una descrizione più tecnica, o qui per una più ampia introduzione). Utilizzando alcune caratteristiche delle viti selvatiche di ascendenza asiatica ed americana (vitis amurensis, saperavi, labrusca), si possono ottenere uve con cui produrre un buon vino dal gusto europeo, risparmiando però le decine di passaggi in vigna con antiparassitari e anticriptogamici.
Dopo aver bene approfondito la questione, Mario e Fiorentino mettono a dimora queste viti in un terreno a 850 mt. di altitudine, in Val di Cembra. Dove la naturalità dell’evitato impiego di fitosanitari viene amplificata dal fatto che il vigneto è circondato da boschi. Isolato quindi da altre colture, e pressoché incontaminato. Un piccolo problema, che non spaventa i due soci: allora il solaris non era autorizzato. Ma quando nel luglio del 2013 la varietà verrà ammessa in Trentino, Pojer e Sandri possono, dopo pochi mesi, fare la loro prima vendemmia.
Per rimanere fedeli al loro sogno, studiano la migliore via di vinificazione di uve così particolari. Arriva l’idea è di recuperare l’antica tradizione del prosecco col fondo e la vinificazione del “vecchio” Lambrusco. In pratica si cercherà di sfruttare i lieviti non solo per il loro normale ruolo nella fermentazione, ma anche come agenti antiossidanti, quando ormai il vino sarà in bottiglia. I due trentini vanno a scuola dal “prof.” del Lambrusco di Sorbara, Vincenzo Venturelli e nasce quindi un vino non filtrato, frizzante, che termina la sua fermentazione in bottiglia, con tappo a corona. La sedimentazione dell’acido tartarico e dei lieviti esausti qui rimane in bella mostra grazie ad un vetro trasparente. Ed è giusto che sia evidente, visto che è proprio essa a svolgere la funzione che di consueto è compito della quantità di anidride solforosa aggiunta, qui – ça va sans dire – ridotta a zero!
Per tornare a giocare con la paradossalità del nostro vino, un ultimo dettaglio. Nel vigneto di Grumes hanno selezionato naturalmente un lievito particolare, e con esso, in cantina, preparano una sorta di pied de cuve. Non il comune saccharomyces cerevisiae, ma il più raro e nobile saccharomyces paradoxus! Esso, oltre a lavorare meglio, apporta in dote sentori più fini e agrumati.
Così lo Zero infinito ha un carattere paradossale già dall’inizio della sua vita, nella primissima fermentazione. Per poi permanere fino alla fine nella sua essenza ossimorica: nonostante si chiami Zero infinito, le bottiglie si esauriscono già pochi mesi dopo la loro uscita sul mercato, alla fine di marzo.
Ma qui a Vinosapiens ormai lo sappiamo, e ne facciamo scorta! Almeno per ora, da noi, ancora non è finito!! Ma non ne abbiamo purtroppo così tante da permetterci di conservarne parecchie: perché sarebbe davvero interessante poter verificare fra qualche anno a che qualità il tempo potrà portare il vino. Chissà come sarebbe interessante una verticale di Zero Infinito!
Quasi quasi, invece di rilanciarle nello shop on line (qui), le bottiglie ce le teniamo tutte! Ecco, l’ultimo dei paradossi…
Quando parliamo di vini Piwi dobbiamo tenere a mente una cosa fondamentale: quasi tutte le discipline e attività umana hanno ciascuna un lessico proprio. A quanti non vi sono addentro esso può risultare incomprensibile e causa di fraintendimenti. Ciò vale anche per la viticoltura. Ad una persona urbanizzata, la vista di un vigneto ben curato può suscitare una nostalgia bucolica e romantica; esso non immagina, invece, che quello sia un campo di battaglia. Sì, un viticoltore sa bene che in vigna vi sono attacchi, a cui si deve rispondere con urgenza: la resistenza per lui non è un tema storico e passato.
E’ una questione assai attuale. Ecco perché, negli ultimi anni, il lessico dei viticoltori si è arricchito di un’abbreviazione di una parolina tedesca, che riassume in una sola parola resistenza e nemico cui occorre resistere: piwi, per l’appunto, che sta per pilzwiderstandfähige, ossia capace di resistere ai funghi. La guerra che la viticoltura europea ha combattuto negli ultimi secoli del millennio scorso ha conosciuto diversi ribaltamenti di fronte, con drammi alternati a momenti di sollievo, poi di nuovo catastrofi originate da ciò che sembrava apportatore di vittoria. Insomma, occorse una tattica degna del barone von Clausewitz.
Ripercorriamola a grandissime linee. Di fronte alla diffusione della phillossera vastatrix, un insetto che attacca l’apparato radicale e e che, come suggerisce il nome, faceva strage impietosa dei vigneti europei, gli studiosi intuirono un possibile rimedio nella vite americana, che mostrava resistenza al malefico insetto. Così, per non perdere la qualità dell’uva dei vitigni da secoli a dimora in Europa, essi furono innestati su radici di viti americane. Solo in pochissime zone e per pochi vigneti, la vite rimase a piede franco, ossia con l’apparato radicale originale. Se fu vinta la battaglia con la fillossera, l’importazione di viti estranee all’ecosistema continentale determinò, a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, l’arrivo e la diffusione di altre nuove malattie, questa volta causate non da afidi ma da funghi, prima l’oidio e poi la peronospora. Altri decenni di ansia e di tentativi approssimativi, fino a quando il francese A. Millardet inventò la “poltiglia bordolese”. Nemmeno nell’originale francese – bouillie bordelaise – il suono non ispira nulla di buono: si tratta infatti di un composto di rame, zolfo e calcio, poi diluiti in acqua e vaporizzato.
Eppure divenne il rimedio efficace e necessario per tutelare le vigne, soprattutto in situazioni critiche di umidità e pioggia. La battaglia fu vinta; eppure, se allora non si badò troppo agli effetti collaterali, il progresso scientifico e la maggiore sensibilità alla salubrità dell’ambiente oggi interroga e inquieta. Soprattutto in luoghi dove vigneto ed edifici antropici sono frequentemente contigui: irrorare trattamenti in vicinanza di abitazioni o, peggio, di scuole o asili, diventa assai problematico. Così, ad esempio, la legislazione altoatesina impone un limite e una distanza di sicurezza assai stringente: l’estensione dei vigneti aumentata e che ora lambisce e si addentra in centri abitati obbliga il viticoltore a ripensamenti e a nuove strategie.
Probabilmente né un consumatore medio né un piccolo viticoltore immaginerà che nella scienza agronomica applicata alla vigna possa essere importante la “demasculazione”. Eppure tale processo, una sorta di castrazione, è l’inizio di un itinerario che può durare oltre i venti anni, da un’ipotesi teorica alla definitiva affermazione nella prassi. L’idea iniziale fu quella, ancora una volta, di associare la particolare robustezza della vite americana, e in generale, di viti selvatiche ed extraeuropee alla qualità sublime della vite domestica europea.
Dovendo fronteggiare un fungo, e non più un insetto che attacca le radici, non era un nuovo innesto ciò che serviva; la capacità di resistere indenne alla diffusione di malattie funginee doveva essere assunta nell’identità stessa della pianta. Se la strada dunque era quella di cercare di ottenere nuove piante, occorreva favorire nuovi incroci, impedendo l’autoimpollinazione delle viti, piante che nella sottospecie sativa sono ermafrodite. Eliminando manualmente le antere maschili, durante la fioritura (lo si fa con forbicine o pinzette!), e accostando pollini di altre piante selezionate all’uopo, nel grappolo si formeranno acini con vinaccioli di piante con due genitori: uno di essi porterà la resistenza alle malattie e l’altro la qualità del frutto.
La teoria parrebbe chiara, ma come accade con gli uomini, i figli, pur simili ai genitori, sono alterità misteriose, e solo crescendo riveleranno i loro caratteri. Così, il piccolo seme viene raccolto, accudito e fatto germogliare. Quando si sarà formata una piccola pianta, inizieranno i test empirici. Dapprima, in serra, in una sorta di stanza della tortura, verrà creata una situazione esageratamente favorevole alla propagazione di funghi, per vedere da subito le piante toste e capaci di sopravvivere simili condizioni proibitive.
Gli esemplari che superano il test saranno quindi piantati in campo e coltivati fino alle prime vendemmie, e in microvinificazioni separate se ne studieranno poi i caratteri organolettici. A dir la verità i primissimi tentativi furono assai deludenti, sul versante della qualità dei vini. La ricerca e la sperimentazione è continuata, arrivando a vini di ottima qualità. Ai nostri giorni siamo alla sesta generazione di incroci, e quasi tutti i piwi hanno oltre il 95% di genoma di vitis vinifera. La nuova sfida è piuttosto trovare il terroir adatto ad ogni vitigno, dato che l’ambiente esterno interviene grandemente nell’espressione del fenotipo.
Con i vitigni piwi si rivive, accellerato e analogo, il millenario processo di domesticazione della vite che attuarono i nostri antenati. Ci sono nuovi vitigni da conoscere in profondità, vini a seguire nell’affinamento e nelle prospettive. Non mancano anche quanti dubitano, preferendo i consueti e noti legami fra un particolare vitigno e la sua territorio di elezione, come pure con la metodologia di produzione di vino più appropriata. A proposito, la scienza potrebbe offrire altri possibili interventi, che hanno il vantaggio di mantenere pressoché intatta l’identità di un vitigno, e quindi tutto il retroterra tradizionale di coltivazione e di vinificazione. Si tratta dell’editing genetico e della cisgenesi. Con la prima metodologia si conserva l’identità di un vitigno, modificando geneticamente la risposta che la pianta, ad esempio un aglianico o un sangiovese, metterebbe in atto di fronte ad un attacco di un fungo; con il seconda si entra nel campo degli OGM (trasferimento di geni o di sequenze di dna da una pianta all’altra), verso i quali il dibattito presenta gradi di dialettica e di scontro troppo esacerbati. La ricerca si sta muovendo con passi da gigante, e alcuni viticultori assicurano che manchi poco all’ottenimento di cloni di vitigni tradizionali resistenti.
Tornando invece ai piwi, siamo già ora, nel presente: con essi si passa nell’ambito dell’iper-bio o del super-bio, molto di più della già tanto importante coltivazione biologica. Riassumendo: non solo si tratta di incroci naturali, l’intervento artificiale dell’uomo è limitato alla fase dell’impollinazione, ma – e questo è l’aspetto più rilevante – la resistenza ottenuta permette di abbattere, se non azzerandolo del tutto, il numero dei trattamenti chimici e a base di fitofarmaci, che un viticoltore deve effettuare nel corso del ciclo vegetativo della pianta. Per dare un’idea, si può passare da una ventina di trattamenti ad uno o due, o a zero trattamenti l’anno. La qualità di coltivazione biologica o naturale ne viene, in tal modo, enormemente implementata. Se, in generale, la vigilanza e il passaggio in vigna con gli anticriptogamici ha un costo importante, ancora maggior sarà il risparmio in tempo, fatica e soldi per un viticoltore che opera magari su terreni in pendenza o difficili da raggiungere.
Ad un risparmio, tuttavia, si oppone un mancato guadagno: le aziende farmaceutiche e di prodotti per la viticoltura non sono state certamente a guardare, e l’azione di lobby è stata influente. Se da una parte le riserve verso i vini piwi avevano un’iniziale punto di partenza oggettivo, a proposito della qualità, dall’altra, dietro a certi interventi di politica agroalimentare c’è stato senza dubbio qualche interesse economico. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Eppure di novità ve ne sarebbero, eccome. Infatti, fra le tante caratteristiche che i nuovi ibridi portano con sé, vi è ad esempio, per alcuni, un migliore adattamento ad ambienti più freddi, per cui si impiantano viti e si riescono ad ottenere grappoli con piena maturazione anche in zone in cui la vite non era mai stata messa a dimora. Nella problematicità di stagioni sempre più calde nelle zone tradizionalmente vocate, riuscire a vendemmiare e a vinificare anche a quote altimetriche mai pensate prima potrebbe essere davvero risolutivo per il futuro. Questo è il grosso lavoro che si è fatto negli anni passati, e che si dovrà fare ancora: cercare di capire il migliore contesto pedoclimatico, nel quale i nuovi vitigni possano esprimersi al massimo.
Furono necessari secoli e secoli, per comprendere le zone vocate più vocate per il pinot nero o per lo chardonnay, e per capire che un merlot di Bordeaux non poteva assomigliare allo stesso vitigno a dimora sulla costa Toscana. Con le moderne scienze e con la possibilità odierna di scambi di informazioni, non occorrerà molto tempo. Sarà necessaria, questo sì, la pazienza e l’audacia, anche per i degustatori: un vitigno piwi produce vini non immediatamente riconducibili ai profili organolettici di quanto è consuetudine bere. Avendo a disposizione l’albero genealogico di un nuovo vitigno, si potrebbe ricercare in bottiglia richiami e sentori dei progenitori conosciuti. Ad es., fra i progenitori del bronner vi è anche il riesling; e in effetti in qualche bottiglia, magari di una vecchia annata, si coglie qualche sorprendente somiglianza.
Ma certamente è più interessante e stimolante lasciar perdere paragoni sterili e saccenti, per valutare un calice per quello che è: la storia, i caratteri e il territorio di un piwi hanno tanto da dire in sè, senza bisogno di appoggiarsi al conosciuto e allo scontato. Si dovrà uscire dalla comfort zone sensoriale, che troppo spesso appiattisce vini e bevute tutte eguali. Comprare una bottiglia da uve resistenti non è solamente un atto ecologico; si tratta di rimettersi in viaggio, accompagnando il viticoltore nella sua ricerca, come un tempo fecero generazioni e generazioni. Un ulteriore aspetto intrigante e fascinoso è quello relativo al naming di nuovi vitigni. In alcuni casi si è fatto riferimento ai progenitori, ad es. per il cabernet cantor; per altri si è optato per un nome di fantasia e vagamente evocativo, come il solaris. Ancora, vi è l’esempio del clisium, un ibrido studiato per la messa a dimora in un’ambiente specifico, la trentina valle del Chiese, di remotissime tradizioni viticulturali, abbandonate poi negli ultimi secoli.
In sostanza, i vini Piwi sono vitigni e territori tutti da ri-scoprire: scopri tutti gli articoli sul nostro blog.