Come spesso accade, fa più rumore un fatto al negativo che la versione di esso al positivo. Così, in questi giorni è giunto in Italia il ragguaglio del mancato supporto del governo francese ad una discutibile iniziativa, Le défi de Janvier, promossa da una rete di associazioni che si battono contro ogni tipo di dipendenza. Si tratta di sospendere, per il mese di gennaio, ogni forma di assunzione di bevanda alcolica. Macron ha negato il patrocinio dell’Eliseo, prestando il fianco alle critiche di essere troppo influenzato dalle lobby del vino. La non-notizia consiste dunque nel fatto che questa campagna che vorrebbe sensibilizzare la coscienza civile sulle dipendenze da alcool, anche quest’anno non sia stata recepita ai massimi livelli istituzionali transalpini. Quindi, in pratica, nulla di nuovo, se non il diffondersi, a livello di main-stream, del tentativo di mettere in cattiva luce il consumo di vino e delle altre bevande alcoliche.
Questa consuetudine è partita, quasi casualmente, in Gran Bretagna. L’iniziativa di un’astinenza radicale, ma temporanea, dal consumo di bevande alcoliche, fu di una ragazza, Emily Robison, che nel 2011 aveva deciso di correre una gara podistica [qui il video dove racconta la sua vicenda]. Per prepararsi e affrontare meglio l’allenamento necessario, decise di rinunciare a bere alcool. Per varie circostanze, l’iniziativa venne assunta e amplificata da un’associazione di volontari contro l’alcolismo e contro le conseguenze di dipendenze dannose e gravi. L’intrecciarsi di motivazioni diverse, la concomitante attenzione ad aspetti medici, sociali e di costume, contribuì a diffondere questa bizzarra iniziativa. Con la sua solita tagliente ironia, Camillo Langone su Il Foglio scrive di un “gennaio analcolico partorito dalla mente di qualche moralista anglosferico e malvagio” (cf.qui).
E’ vero che nel nord Europa la piaga dell’alcolismo grave è assai più diffusa, e che a livello sociale le agenzie governative sono molto sensibili su queste tematiche. Ma spesso si tratta di consumo davvero disordinato e pesante, nel quale incide molto la diffusione di super alcolici e cocktails. Fa tuttavia molta impressione, oltre che essere quasi paradossale, che proprio dalla penisola britannica si voglia diffondere alla Francia e in generale all’Europa tale iniziativa. Fra l’altro occorre dire che nemmeno la ricerca medico-scientifica è unanime nello stabilire una effettiva e reale utilità di un’astinenza temporanea così breve. Sembra, dicevamo, una curiosa incongruenza storica: i mercanti inglesi e il gusto britannico, popolare e aristocratico, sono i fattori che più hanno influito nella storia del vino in epoca moderna.
Dal gusto secco dello champagne, al successo dei vini di Bordeaux; dai vini fortificati di Porto allo Sherry, dal Marsala ai vini della Loira, fino alla prima definizione del Chianti, sono davvero molteplici gli esempi di quanto Londra abbia plasmato il mercato dei vini per come li conosciamo oggi. Anche la capacità dei più diffusi contenitori vinari, la barrique e la bottiglia di vetro da 0,75 lt., è stata pensata per rendere facile il conteggio con le diverse unità di misura britanniche: 300 bottiglie corrispondono precisamente a 50 galloni imperiali inglesi. Chissà cosa penserebbe del dry January sir Francis Drake, il corsaro a servizio della Corona inglese, che con il suo galeone il 29 aprile 1587 attaccò la flotta spagnola nel porto di Cadice, riuscendo a razziare, portandoli poi a Londra, 2900 barili di sherry?
Non serve ricordare che ci opponiamo con tutte le nostre forze alla piaga dell’alcolismo. Crediamo tuttavia che non sarà una nuova forma di proibizionismo o una sorta di ipocondrismo pseudo-salutista a contrastare efficacemente la dipendenza dall’alcool. Per di più, bisogna dirlo, chi in genere fa un uso smodato e pernicioso di bevande alcoliche, consuma prodotti di bassissima qualità. La nostra contro-proposta al gennaio analcolico non può non essere che una: auspicare l’affinamento del gusto, nella ricerca, nella condivisione e nel godimento di vini di qualità. Dunque, più vini sapiens per tutti! Se poi dobbiamo proprio dare qualche indicazione, per questo gennaio potrebbe essere ironico e divertente assaggiare etichette di stile pre-british (cf. qui)!
Lo ammettiamo dall’inizio. Probabilmente nell’elaborazione di queste righe ha pesato anche una malcelata, sebbene sana, invidia: magari potessimo avere anche noi assaggiato migliaia e migliaia di calici, e fra i migliori del mondo!
Eppure, il rispetto che dobbiamo a chi ne sa sicuramente molto più di noi non ci esime dalla critica e dall’osservazione di incongruenze ed errori, qualora li notassimo. Sarà poi vero che due indizi non fanno una prova (secondo Agata Christie ne occorrerebbe un terzo) ma non ci pare solo una coincidenza aver letto parole sprezzanti e troppo genericamente sempliciste da parte del grandissimo esperto Hugh Johnson. In due occasioni, per due tipologie di vino a noi invece care, le valutazioni del critico inglese ci paiono esageratamente frettolose e poco approfondite, se non addirittura del tutto infondate e viziate da pregiudizi ingiustificabili.
In un’intervista al Washington Post dell’ottobre 2016, sui vini con importante macerazione disse: “Gli orange wine sono una pagliacciata e una perdita di tempo. A che serve sperimentare? Sappiamo già come fare il buon vino. Perché vogliamo buttare via la ricetta e fare qualcosa di diverso?”. Pagliacciata, fenomeno da baraccone: si possono lecitamente nutrire dubbi su mercati e tendenze, spesso in balia di mode passeggere e artificiali, eppure non si può davvero liquidare con tali parole un movimento come quello dell’amber revolution (per leggere l’intera intervista, cf. https://www.washingtonpost.com/lifestyle/food/some-wine-writers-benefit-from-aging-too/2016/10/21/ff952cee-9595-11e6-bb29-bf2701dbe0a3_story.html
Ancora più inaccettabili, perché false storicamente oltre che poco eleganti, sono le note che riguardano Marsala e il Marsala nell’imprescindibile libro di Johnson (Il vino. Storia tradizioni cultura, Borgo San Dalmazzo (CN) 1991, 466):
“Negli anni settanta del Settecento, Woodhouse aveva pensato che la Sicilia, poverissima e vittima del malgoverno dei famigerati Borboni di Napoli, in passato era stata una produttrice di vini greci, e poteva tornare ad esserlo. Andò a Malaga per imparare come si produceva il mountain, poi organizzò la sua versione di quel vino nei vigneti della Sicilia orientale, stabilendo il suo quartier generale a Marsala. La sua invenzione ebbe un grande successo a Liverpool, ma divenne famosa solo grazie ai suoi contatti con la flotta Mediterranea di Nelson. Prima della vittoriosa battaglia del Nilo, le navi di Nelson avevano imbarcato, invece del solito rum. il potente vino color castagna di Woodhouse. […] …la Sicilia divenne una colonia britannica: anzi, a un certo punto la regina si trovò tanto a corto di soldi, che la offrì in vendita alla Gran Bretagna per sei milioni di sterline. La presenza di diciassettemila soldati britannici e gli investimenti di Londra portarono molto benessere. Nel 1812 c’erano ben trenta consoli e viceconsoli britannici per controllare gli investimenti. Nei salotti di Palermo si instaurò perfino l’uso di parlare siciliano con accento inglese. In questo mini-boom, gli esportatori di Marsala erano in prima linea. Nelson ordinò cinquecento pipe (duecentotrentamila litri) del marsala di Woodhouse ‘da consegnare alle nostre navi a Malta’. Su queste basi fu costruita una delle più grandi fortune vinicole del diciannovesimo secolo, quando le famiglie Ingham e Whitaker presero il posto di Woodhouse come feudatari di questa curiosa colonia inglese nel paese della mafia”.
Da queste poche righe i più intenderebbero che a Marsala, prima degli inglesi, albergassero solo povertà e mafia. Eppure, se Woodhouse potè creare quello che effettivamente lui e il mercato inglese determinò (anche se provvidenziale all’inizio fu un fortuito fortunale che obbligò la nave di Woodhouse ad una sosta fuori programma nel porto siculo), ciò accadde perché a Marsala l’inglese trovò un prodotto vinicolo eccezionale, al di fuori del comune. Già, a suo modo e nella sua semplicità, tecnologico. Nelle botti (grandi) delle cantine familiari riposava per molti anni un vino forte e corposo, da uve grillo, che conosceva un curioso trattamento: ad ogni quantitativo di vino spillato dalla botte, veniva allo stesso momento aggiunta una corrispettiva parte di vino più giovane. Così, occasione dopo occasione, bevuta dopo bevuta, il vino diventava naturaliter “perpetuo”. La fortificazione allo stile inglese fu allora solamente un’esigenza di prudenza igienica, per permettere al vino di arrivare sano ed integro a Londra. Il Marsala come fenomeno di mercato era un vino diremmo industriale, per quantità e, poi, pure per qualità. Il Marsala prima degli inglesi era invece un vino domestico, familiare.
Anche il marsalese Marco De Bartoli, come secoli prima John Woodhouse, girò famiglia per famiglia, ma non alla ricerca di un prodotto da scommessa commerciale e da esportazione, quanto piuttosto per convincere gelosi custodi di liquidi ancestrali a cedergliene quanto bastasse per dare profondità (di anni) e ampiezza (di quantità) al suo progetto: di fatto il suo Vecchio Samperi nacque già perpetuo, grazie a quanto rimaneva nelle vecchie botti di famiglie, della sua e di altre.
E solo dopo aver assaporato un calice di Vecchio Samperi il nostro animo può essere così buono, da perdonare il pregiudizio comprensibilmente tutto british del caro Hugh Johnson. Capiamo che pur essendo un pozzo di cultura enologica, per parlare del Marsala non abbia saputo attingere altrove se non al suo gossip nazionalista. A lui indirizziamo le parole di un altro grande degustatore, abbagliato anche lui, ma dalla luce e dai profumi della Sicilia, che del Vecchio Samperi scriveva: “Si resta, francamente, ammaliati. Trattasi, nella categoria di cui fa parte, di un supremo vertice, in grado di sedersi al tavolo dei più eccelsi Madeira, Porto o Jerez, e senza il minimo timore reverenziale” (Armando Castagno).
Ora, perché il nostro Marsala prebritish o perpetuo che dir si voglia possa trovare posto anche in tante altre tavole, lo abbiamo reso disponibile nel nostro commercio on line [da mettere il link alla descrizione del prodotto] : potrete anche voi schierarvi, e compiacervi di poter contraddire il grandissimo critico britannico.
Ancora, per apprezzare ulteriormente le sorprendenti potenzialità del territorio (altro che mafia!), si può assaggiare anche una terza linea di prodotti a base uva grillo: il grillo può essere anche spumantizzato. Ecco la Terza Via e, in una sorta di sintesi fra le diverse tradizioni, Terza via riserva, con una piccola dose di Vecchio Samperi ad impreziosire il licoeur de tirage