È sorprendente l’approccio innovativo con cui un gruppo di ricercatori italiani sta riscrivendo le regole dell’agricoltura riguardo alla difesa del vigneto dalle malattie funginee. Una vera e propria rivoluzione sostenibile portata avanti da Grape4vine.
I viticoltori di tutto il mondo sanno che proteggere le viti dai dannosi patogeni fungini come la Peronospora e la Botrite è essenziale per garantire un buon raccolto. Attualmente, la gestione di queste malattie richiede l’uso frequente di prodotti chimici, che rischiano di avere impatti negativi sull’ambiente e sulla salute umana. In media, un’azienda vinicola effettua tra 10 e 15 trattamenti l’anno con prodotti potenzialmente inquinanti, e ciò per di più comporta costi significativi, oltre a un importante consumo di acqua.
Molto è stato fatto fin qui grazie alla ricerca e all’esperienza sul campo, ma annate piovose come quella appena trascorsa e in generale l’attuale instabilità climatica, ci mettono davanti uno scenario davvero poco confortante.
L’esito delle sfide legate alle malattie della vite sta tuttavia prendendo una nuova svolta grazie a Grape4vine, un ambizioso progetto di ricerca condotto in Italia. L’Università degli Studi di Milano e il CREA (Centro di Ricerca per la Viticoltura e l’Enologia) di Conegliano collaborano a questo progetto che promette di rivoluzionare l’industria vinicola, offrendo soluzioni innovative per proteggere le viti dai patogeni fungini per di più utilizzando sistemi sostenibili e rigenerativi.
Il team di ricercatori di Grape4vine affronta queste sfide attraverso una strategia che punta su tre ambiti di sviluppo:
1. La valorizzazione dei Sottoprodotti: Durante la produzione del vino, vengono creati elementi di scarto come vinacce e sarmenti, spesso considerati rifiuti da smaltire. Tuttavia, nell’ottica di un’economia circolare, Grape4vine mira a trasformare questi sottoprodotti in risorse rigenerative, utilizzandoli come substrati per coltivare funghi, lieviti e piante i quali verranno usati, come vedremo, per produrre dsRNA.
2. L’utilizzo del dsRNA: Il cuore del progetto risiede nell’uso innovativo dell’RNA a doppio filamento (dsRNA). Queste molecole speciali possono essere utilizzate per “silenziare” temporaneamente geni specifici nei patogeni fungini o nelle piante, impedendo lo sviluppo delle malattie. È una strategia di gestione genetica su misura per contrastare gli agenti dannosi.
3. L’applicazione sul Campo: Grape4vine sta sviluppando un metodo di applicazione dei dsRNA tramite spruzzatura sul fogliame delle piante.
Attualmente l’efficacia del trattamento “spray” dura alcune settimane e richiede periodiche ripetizioni. Tuttavia rappresenta un’alternativa dal potenziale enorme rispetto agli attuali sistemi di protezione del vigneto.
Questo approccio innovativo non si limita solo alla difesa delle viti ma considera anche l’ambiente, la società e l’economia. Le valutazioni del progetto includono aspetti economici e sociali. L’obiettivo è rendere la produzione di vino più “eco-logica“, proteggendo le piante dai patogeni senza l’uso di prodotti chimici dannosi e sfruttando in modo efficiente i sottoprodotti, verso una viticoltura globalmente più sostenibile.
Questa innovativa gestione genetica delle viti non solo protegge le piante dai patogeni senza l’uso di prodotti chimici dannosi, ma ha anche un impatto positivo sull’ambiente. Riducendo la necessità di trattamenti chimici, si riducono gli effetti collaterali negativi sulla salute umana e sulla biodiversità. Inoltre, Grape4vine promuove una visione di economia circolare, utilizzando sottoprodotti dell’industria vinicola per coltivare funghi, lieviti e piante.
Il progetto Grape4vine sta aprendo la strada a una nuova era della viticoltura, ponendo la scienza al servizio della sostenibilità. La gestione genetica delle viti potrebbe rappresentare un modello per affrontare le nuove sfide cui è chiamata l’agricoltura in tutto il mondo, offrendo soluzioni efficaci e rispettose dell’ambiente per la protezione delle coltivazioni.
Mentre il progetto Grape4vine prosegue con successo, il settore vinicolo guarda con entusiasmo a un futuro in cui la scienza e la responsabilità ambientale si fondono per preservare la bellezza e la sostenibilità dei vigneti.
Per saperne di più visita il sito Grape4vine
(Dalla poesia alla scienza: i vini da flor)
“I suoi riccioli liquidi
sono coperti di fiori bianchi”
(Archestrato di Gela, IV sec. a.C.)
Secondo il grande storico del vino H. Johnson, questi frammenti dell’opera conosciuta sotto il nome di Poema del buongustaio, descrivono una bevanda alcolica a noi familiare!
Sì, nei suoi viaggi alla ricerca dei piaceri della tavola, il poeta della Magna Grecia aveva incontrato, sull’isola di Lesbo, un vino incredibile, che descrive proprio in questi termini. Ora, si potrebbe pensare lecitamente ad un’ebbra fantasia e ad un trasporto forse troppo accalorato da eccessive bevute.
Eppure, lasciata la poesia e senza poter essere certi dell’effettiva identità di quell’antico vino, di liquido alcolico “coperto di fiori bianchi” ne conosciamo anche noi, e di vari! Se la letteratura ci offre indizi per ricostruire tradizioni e legami, la scienza ci aiuta a capirli meglio.
Può essere infatti del tutto probabile che quell’antico vino greco sia avvicinabile a quelli che noi oggi definiamo come vini ossidativi, vinificati sotto “flor“, per dirla alla spagnola.
Dal punto di vista scientifico i “fiori” che si notano sulla superficie del vino in botte non sono altro che catenelle e raggruppamenti di lieviti microscopici dal comportamento curiosamente “sociale”.
Si tratta di uno strato che si forma, in particolari condizioni, sulla superficie del vino che viene messo a maturare in botti lasciate appositamente scolme, ossia non del tutto piene, e, quindi, con un’importante porzione di aria nel recipiente. Tale strato i microbiologi lo chiamano biofilm, i vignaioli francese dello Jura, con un tocco poetico degno di Archestrato, lo chiamano “voile“, velo.
Tornando alla biologia, alcuni ceppi di lieviti, i principali protagonisti della trasformazione del mosto in vino, hanno un patrimonio genetico del tutto eccezionale, che li rende capaci di una doppia vita.
Ad un certo momento della loro avventura nel mosto derivato dalla pressatura delle uve, quando già hanno compiuto il prezioso lavoro di decomposizione degli zuccheri e della loro trasformazione in alcool, cominciano a spostarsi sulla superficie del liquido. Nella fase sommersa, l’ambiente è ad essi favorevole, ricco di sostanze che sono il loro cibo.
Ma se per i normali lieviti, il prodotto di scarto di questo processo nutritivo, ossia l’alcool etilico, alla fine diventa irrimediabilmente fatale e l’habitat che fino a poco prima li deliziava e li nutriva diventa saturo e insopportabile fino a dar loro morte, i lieviti “flor“ hanno una risorsa nascosta: stressati dalla situazione che si va facendo sempre più minacciosa e che cambia ad ogni ora che passa, essi alterano a loro volta il loro metabolismo e accendono un gene particolare, che li rende capaci di “mangiare” anche l’alcool.
In questa nuova fase di vita, diventano idrofobi, e nelle loro membrane cellulari si sviluppa una proteina, chiamata adesina, che favorisce l’aggregazione. Così miliardi e miliardi di microorganismi si ritrovano sulla superficie del vino e si aiutano nel gestire gli scambi con l’ossigeno della botte scolma, sopra di loro, e con l’alcool, al di sotto. Sì, perché nel frattempo, da anaerobi sono diventati aerobici.
Tutto questo prodigio, qui fin troppo banalmente semplificato, è minuziosamente studiato e descritto da fior (è il caso di dirlo) di scienziati. A noi, appassionati di vini, affascina e interessa, ma il giusto, per capire il mistero di tali vini, impreziositi dall’opera mirabile di questi piccoli amici, che permettono al vino di gestire e di vincere la sfida con l’ossigeno, e quindi con il tempo, e di arricchirsi di precursori di aroma e di complessità del tutto particolari, dovuti all’acetaldeide, che è il prodotto di scarto della seconda fase delle grandi scorpacciate dei lieviti flor.
Di questi ultimi è stata perfino tentata una storia evolutiva assi interessante, secondo la quale la mutazione genetica fatidica dovrebbe aver avuto inizio o in Libano o nel sud-ovest della Spagna. Una sorta di mappa immaginaria e favolosa la si può tratteggiare anche osservando i luoghi dove i vini ossidativi venivano e vengono prodotti.
Ad eccezione dei vini dello Jura, le altre tipologie paiono accomunate dalla vicinanza del mare e di porti, come se ci fosse un legame fra ossidatività e “navigabilità” di tali vini. Il che sarebbe un altro coerente indizio per l’ipotesi di Johnson del vino di Archestrato come di un vino da flor.
Se molti sono ancora i misteri di tale insolita e prodigiosa vinificazione, tante sono le scoperte e le storie che possono accompagnare e illuminare gli assaggi di vini ossidativi. Ne condivideremo ancora parecchie, con voi.
Nel frattempo perché non iniziare a stappare?
Proponiamo due etichette. Rimanendo in ambito isolano, come il vino di Lesbo, entrambe provengono dalla Sardegna. Può destare curiosità la particolare bottiglia della prima, adornata da una serigrafia raffigurante la pavoncella sarda, che secondo alcune leggende, risorgerebbe dalle proprie ceneri: una doppia vita, come i lieviti flor.
Il vino rimane in botte scolma almeno per 5 anni, eppure ha una freschezza inaspettata ed incredibilmente giovanile! (vernaccia di oristano)
Le sapienti mani di Davide Orro e della sua famiglia curano tutte le fasi della produzione, guidate da l’obiettivo nobile e coraggioso di riportare in auge un territorio ed un vino tradizionale con idee innovative e assolutamente moderne. Sono passati pochi mesi dalla nostra visita al museo da lui ideato, ma è stato di nuovo arricchito ed ampliato, da renderlo meritevole di un’altra visita (cf. https://www.ecomuseovernacciaoristano.it).
La seconda etichetta, per innamorarsi da subito dei vini ossidativi, viene dalla storica cantina di Bosa, fondata da Gianbattista Columbu. Fiori di assenzio e liquirizia, il naso racconta la macchia mediterranea che circonda i vigneti, e il mare che riflette la luce della costa orientale dell’isola: un terroir benedetto, dove oggi Gianmichele e Vanna resistono, felici di aver come fiore all’occhiello della loro produzione di nicchia un vino fatto apposta perché sia bevuto insieme e sia parlato.
E, di certo, ne parleremo ancora. (malvasia di bosa)