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Non fu la costruzione di rudimentali armi né l’uso del fuoco a far emergere dagli ominidi una specie del tutto particolare: l’uomo nasce con l’apertura alla trascendenza, mentre contemplava la volta celeste e seppelliva i propri morti.

Certamente importanti furono la postura eretta e la manualità straordinaria determinata dal pollice opponibile, ma non esse plasmarono la differenza specifica del sapiens sapiens. Questo consenso generale degli antropologi ha qualcosa da dire anche alla nostra idea di vino.

Dopo decenni di diffusione e di catalogazione omologante del vino industriale e convenzionale, sentiamo il bisogno di un nuovo approccio. Intendiamoci, non abbiamo nulla a che dire riguardo a vini ben fatti e tecnicamente perfetti.

Continuiamo ad apprezzare il lavoro delle guide di settore ed in genere assaggiamo quasi tutti i vini premiati e celebri. La questione è che dopo qualche frequentazione delle bottiglie in voga, sorge un desiderio di scoprire qualcosa oltre il consueto e il convenzionale.

Non si tratta di seguire altre mode, forse più settoriali ed elitarie, ma pur sempre mode, quanto di corrispondere ad un intimo istinto di sfuggire il tedio e la delusione, muovendosi nel terreno dell’imprevedibile e della scoperta, che invece di ricondurre il gusto a soliti riconoscimenti, renda possibile esperienze ed emozioni nuove. Insomma, le “armi” e il “fuoco” non bastano più!

Ci sono, e probabilmente è giusto che ci siano, produttori in-scalfibili ed adamantini nei loro successi; è pure vero che si incontrano sempre più frequentemente etichette   accattivanti che recepiscono un qualche bisogno di cambiamento: ecco improbabili affinamenti “in anfora” – terracotta all’esterno e vetro all’interno! -, vinificazioni in bianco di tradizionali vitigni a bacca rossa, macerazioni esagerate, blend bizzarri, e chi ne ha più ne metta, per strizzare l’occhio ad un mercato sempre più diversificato e liquido.

Eppure, non potranno mai nuove tecniche o nuovi artifici soddisfare la sete. Siano benvenute le armi e il fuoco, siano benvenute le scienze agronomiche, l’enologia 2.0  e le tecnologie di cantina: ma c’è bisogno di altro, e di oltre.

L’uomo sapiens non si nutre mai alla maniera di un’animale. E non ci si riferisce qui  solamente alla manipolazione e alla cottura del cibo. L’atto del mangiare, pur rimanendo totalmente un atto biologico, nell’uomo assume la forma spirituale del banchetto: in esso sperimenta la squisitezza delle cose donategli dalla fecondità della terra e la comunione con altri uomini, con quanti hanno trasformato il prodotto grezzo in cibo, o bevanda, e con quanti lo consumano insieme a lui.

Sa che le cose sono più che cose! Per questo, una bottiglia di vino non può, o almeno non dovrebbe essere, mai, solo una bottiglia di vino. E che dire poi della pratica di degustazione, impostata come spesso è in una griglia di caratteristiche finalizzate a confronti paradigmatici già depositati, spesso fini a se stessi o, peggio, di mera valutazione commerciale? Un vino è solo olfatto e bocca, o si può aspirare ad un gusto oltre il palato?

Senza rinnegarlo, senza essergli contro, il palato può aprirsi ed essere influenzato da un’educazione a ciò che lo spiazza, forse disorientandolo, che possa pur favorire un sentire, un săpĕre, che, partendo da un atto del tutto biologico e materiale, quale il gesto dell’assaporare un calice di vino, offra all’uomo un’esperienza spirituale, di conoscenza e di emozione, di qualità superiore.

Non solo educazione alimentare

Alcuni studiosi hanno descritto ipoteticamente un modello mediterraneo di consumo del vino, improntato alla moderazione e alla piacevolezza. In altri contesti, nordeuropei o americani, sembra prevalere invece un dualismo altalenante, fra alcolismo diffuso e binge drinking, da una parte, e proibizionismo puritano dall’altra.

Da noi, invece, il vino non si beve tanto per sete, ma per gusto, per assaporare la bontà delle cose. Consumato senza misura, esso è l’origine di vizi, tristezza e dispiaceri; assunto con sobrietà, accresce il discernimento, la capacità di cogliere le sfumature della bontà.

Diventare intenditori ed esperti, quindi,  dovrebbe andare  di pari passo con la finezza di spirito e l’amabilità. Insomma, non si può lasciare la questione a tecnici o a burocrati. Perché, se da una parte la sensibilità moderna, ad esempio, sottolinea l’attenzione a parametri rigorosi nel rapporto fra il vino e la guida al volante, oppure stravede per vini a bassissimo contenuto di chimica aggiunta, non è certo solamente in termini di salubrità individuale o sociale che si deve articolare la problematica.

Come lo si fa per il cibo spazzatura, altrettanto da stigmatizzare sarebbe lo junk wine, ma non solo per la tossicità o gli additivi magari presenti. Non si tratta solamente di questo: per essere chiari, i vini industriali, magari commercializzati nel tetrapack, sono tecnicamente perfetti e con standard di pulizia produttiva elevatissimi.

Eppure, non è con questo tipo di vini che ci si può elevare fino allo stupore. La fattura tecnica o l’assenza di artifici troppo ingombranti sono solamente alcuni dei tanti aspetti da tenere presenti. Rivolgere l’attenzione ad essi garantirebbe una certa salubrità e la nettezza del palato, eppure il gusto è molto altro.

L’educazione ad esso significa talvolta abbandonare consuetudini di bevute troppo facili, mettere una tara ai propri sensi, addirittura, in alcuni casi, astenersi per non rischiare un’intontimento che comprometterebbe la reale percezione e la possibilità interessantissima di legare insieme sensazioni fisiche (un profumo, un colore, etc.) ad un sentimento.

Beh, sì, senza scomodare vini truffaldini o truccati, non è una novità che le papille gustative si possono mandare in corto circuito. Gli antichi osti offrivano il finocchio prima di servire vino discutibile, oggi grandi catene di fast food utilizzano a man bassa salse agrodolci. Per rincorrere i sentori tipici di un lungo affinamento in barrique, nel nuovo mondo si è diffuso l’uso di chips di truciolato da immettere nel liquido, magari conservato in acciaio o in cemento.

Senza tuttavia toccare questi casi estremi, con vini conciati e trattati con additivi come si può gustare il genius loci di un territorio, la tradizione ivi consolidata, la maestria artigianale del vignaiolo?

Un approccio olistico alla degustazione, un’impronta umanista e non meramente edonistica al piacere del sorso, una sorta di enoteca didattica: di tutto questo sentiamo il bisogno. Perché una degustazione possa aiutare a discostarci dal consueto e dal già visto, possa portarci dal sapore al sapere, dall’impatto contrastante con vini difficili all’equilibrio dinamico di un pluralità di sensazioni e ricordi.

Parrebbe un ossimoro: eppure scosta-menti da gusti rassicuranti e scontati per noi si sono rivelati affina-menti, hanno significato un percorso, una sorta di evoluzione del gusto e del modo di in-tendere il vino, ad esso volgere tutti i sensi, vigili e ben aperti, perché ci restituisca quella sapienza che, in fondo, tutti cerchiamo.

Una sorta di catalogo

Fra tanti vini e tanti produttori che potrebbero accompagnarci in questa sfida, ne abbiamo selezionati alcuni, articolati secondo diverse categorie. Di certo, ce ne sarebbero molti altri: iniziamo con relativamente pochi, crediamo fra i migliori e i più rappresentativi.

Con le nostre etichette viaggeremo in alcuni panorami della produzione vitivinicola che ha dato forma e bellezza al paesaggio delle nostre campagne. Un’esperienza estetica, che però ci porti in profondità, fino ad accompagnare l’intuizione del mistero del vino: un prodotto del lavoro agricolo, drammatico per tanti aspetti di vulnerabilità, incertezza e costantemente a contatto con il rischio del deperimento, che tuttavia – diversamente da tante esperienze quotidiane – migliora con il tempo che passa, e per questo reca una singolare e anticipata promessa di eternità.

Perciò, una prima categoria sarà quella dei vini nei quali la sfida con il tempo ha intrapreso una via difficile e ardua, ma intrigante e di successo: quella dell’ossidazione desiderata e gestita ai limiti dello scibile, con fortificazioni o grazie a particolarissimi, eppur tradizionali, stili di vinificazione, o, infine, con l’ausilio misterioso di lieviti prodigiosi, dall’affascinante doppia vita.

Un’altra serie di bottiglie è quella selezionata da produttori che lavorano con vitigni naturalmente resistenti alle principali malattie funginee. Si tratta di approcci modernissimi ed innovativi, che aprono prospettive scientificamente molto interessanti che però non annullano il dialogo con la storia e con la tradizione.

Ancora, una vastissima gamma di spumanti italiani da monovitigno o da blend inconsueti, per scoprire bollicine non omologate ai noti sentori di crosta di pane e pasticceria, e fieramente indipendenti.

Allargano questa categoria anche grandi vini da medoto charmat con tempi di presa di spuma insolitamente lunghi, come pure alcuni champagnes di vignerons, piccoli per quantità di produzione, ma grandissimi per qualità e artigianalità, che, una volta conosciute, facilmente vincono il confronto con etichette pur famose e dominanti la grande distribuzione .

Infine, da numerosissimi incontri e viaggi per cantine, abbiamo anche noi una sorta di vini del cuore, non tanto legati al sentimentalismo quanto allo zelo e alla genialità dei loro produttori, diventati per noi amici e fonte di ispirazione.

Da essi abbiamo ascoltato storie di famiglia incredibili; con loro abbiamo riscoperto territori, calpestato vigneti che sono oasi di libertà fresca e genuina; ad essi dobbiamo molta della nostra passione.