Dovevamo immaginarcelo. Ci doveva pur essere qualcosa di straordinario, nei lieviti flor, che ce li ha fatti piacere fin dal primo incontro.
Studiandoli un pochino, siamo rimasti incuriositi dalla loro parabola vitale: laddove i comuni ceppi arrestano il loro metabolismo e muoiono (e in questo loro dissolversi continuano però ad impreziosire il vino di preziose sostanze), essi, invece, pare che risorgano. Da condizioni proibitive, per assenza di nutrimento e saturazione di etanolo, per loro indigesto e nocivo, riescono a reagire, mostrando una stupefacente capacità di adattamento. Il loro metabolismo subisce un impressionante cambiamento: si nutrono di ciò che fino a poco prima per loro era veleno; ancora, ciò che rifuggivano – l’ossigeno – ora diventa loro utile e prezioso.
Così da anaerobi diventano bravi a lavorare in ambiente aerobico, fornendo al vino una protezione e allo stesso tempo una singolare ed unica forma di mediazione nei confronti dell’aria, per la stragrande maggioranza dei vini uno spauracchio fra i più temuti. Accade loro una vera e propria conversione. Hanno questa peculiare ed invidiabile capacità: non sono irrigiditi nei loro schemi, si adattano, accorgendosi di quanto accade intorno a loro, capaci di cogliere comunque il bene dalle situazioni in cui vivono.
Prima, nel mosto, mangiano il fruttosio e le altre sostanze azotate, poi, man mano che il mosto si trasforma in vino (e sono loro che compiono questo miracolo), capiscono che è giunto il momento di cambiare. Cominciano così a sintetizzare l’etanolo. A questo stadio – ed è un’altra cosa interessante e che ci affascina – cominciano ad intrattenere una nuova vita sociale. Forse intuiscono che la difesa e la reazione al pericolo dovuto all’eccessiva quantità di alcool che si sta formando, come prodotto di scarto del loro lavoro fermentativo, potrà essere efficace solo se i singoli individui si assoceranno e si metteranno insieme. Ecco che questi lieviti formano delle catenelle fra loro, aiutandosi l’uno con l’altro, se così possiamo dire.
C’è un ulteriore aspetto, curioso, e divertente. Anch’esso ci trova accomunati e ci rende questi lieviti flor ancora più simpatici. A loro, come a noi, piacciono le bollicine! Sì, proprio così. In recenti studi, alcuni ricercatori hanno mostrato come la particolare mutazione al gene flo 11 di questi lieviti geniali (sì, lo possiamo dire) incide nella sintesi di una proteina della loro membrana cellulare. Al termine della fermentazione alcolica, tale proteina conferisce alle loro cellule una peculiare idrofobicità. Così da una fase pelagica, profonda, immersa nella massa del liquido, cercano di passare ad una fase superficiale, sulla parte superiore della botte o del recipiente.
Per trasferirvisi, i lieviti flor si agganciano alle bolle di anidride carbonica, che per loro fungono da vettore. Nel loro viaggio verso l’alto e verso l’aria presente nelle botti scolme, i flor sono trasportati dalle bollicine che tanto apprezziamo nei vini spumanti. Anch’essi dunque amano, a loro modo, l’effervescenza. E noi con loro, e da essi siamo sempre di più affascinati.
David Landini ha un suo modo di vedere le cose.
Eravamo curiosi di conoscere l’artefice di questo vino così straordinario e misterioso. Così abbiamo deciso di aggiungere una tappa al nostro bellissimo viaggio già pieno di appuntamenti con vini e persone da incontrare e da ritrovare. Sapevamo che sarebbe stata un’impresa tutt’altro che semplice. Ma l’attrazione e la curiosità erano troppe per non provare a cogliere l’occasione.
Era curioso anche lui, secondo me, di sapere chi fossero quei due squinternati che ti chiamano così all’ultimo momento durante un tragitto in macchina – direzione Puglia – con il vivavoce attivato per sbaglio e due ragazzini in sottofondo che cantano a squarciagola. Il vivavoce poi l’abbiam tolto, ma ormai era troppo tardi…
Lasciamo i bambini dai nonni e ci dirigiamo in quel di Pisa, Palaia, tra boschi fitti di querce e zone interamente dedicate alla lavorazione del tartufo.
Ci accolgono David insieme ad Alessia, la responsabile amministrativa, e ci introducono nella sala degustazioni dove avevano allestito uno spazio pieno di lavagne, matite colorate, fogli da disegno, piccoli sgabelli e giocattoli!
“Dove sono i bambini? Pensavo li avreste portati con voi!”. Eh sì, al telefono aveva sentito le loro voci, quindi ha pensato bene di preparare un’accoglienza su misura.
Perché David Landini ha un suo modo di vedere le cose! Il suo sguardo va oltre.
Lui conosce il mondo delle grandi aziende, di quelle più famose, perché ci ha lavorato come winemaker per tanti anni e tutt’oggi si occupa della direzione della ben nota Villa Saletta, in Toscana.
Ma David Landini ha un suo modo di vedere le cose: lui le vede con gli occhi dei suoi figli, che hanno provveduto personalmente alla prima “stesura” dell’etichetta del Viaggio di Landò. Poi il signor Sergio Staino ha fatto il resto, interpretando con il suo stile inconfondibile e con gli ormai celebri personaggi, Bobo e Bibi, il disegno dei bimbi di David, e cogliendo lo spirito fanciullesco e sognatore del loro papà: un uomo che ama le cose semplici, fatte con sapienza e cuore.
Così è il tempo di chi si accosta alla compagnia dei suoi vini: gioviale, saporito e appassionante. E durante tutto il viaggio, non importa quanto duri, continui a chiederti: “ma come fa ad essere così buono?”.
Perché più che un vino è una pozione magica e giocosa. Come quando i nonni incantano i bambini, accendendo i loro sguardi con le storie avvincenti di un’epoca che fu. Storie di un tempo antico che ti incatena al presente. Perché è lì che vorresti rimanere per sempre, ad ascoltare quelle avventure raccontate lentamente, da una voce calma e accogliente che non ha fretta di andar via.
E così David unisce saperi antichi e tecniche attuali, conducendo affabilmente coloro che vorranno percorrere insieme ai suoi vini una parte del loro viaggio.
Con qualche “fermata” nel suo mondo, un luogo dal sapore meraviglioso.
Il Viaggio di Landò – Prima Fermata è certamente tra i migliori vini rossi del nostro tempo.
Pochissime le bottiglie prodotte da David, circa 3.000, tutte numerate. Una vera rarità, difficilissimo da trovare anche negli scaffali delle enoteche più prestigiose.
A base di uve Canaiolo in purezza, vitigno storicamente utilizzato per contribuire al blend del Chianti, questo vino regala tantissime emozioni già al primo assaggio.
Sarà perché il vigneto ha novant’anni, e quando una vite raggiunge quell’età produce pochissima uva, ma di qualità eccellente. O sarà perché David lo realizza con l’idea ben precisa di esaltare il terroir interpretandolo secondo la sua personalità, quella di un uomo appassionato e sapiente che sa unire tradizione e innovazione. O probabilmente tutti questi elementi insieme sono gli ingredienti della magia del Viaggio di Landò – Prima Fermata.
Al calice si presenta di un meraviglioso color rubino. Il bouquet olfattivo è ampio, con note di frutti rossi e fiori che cedono il passo, dopo qualche oscillazione del calice, ai sentori di macchia mediterranea, con un bel parterre di erbe aromatiche. Al palato è goloso e franco, colpisce il tannino setoso ed estremamente elegante, che accompagna perfettamente la salivazione indotta dai sali minerali. Ottima corrispondenza gusto-olfattiva, sembra a tratti di mangiare delle ciliegie appena colte.
L’aspetto che più di tutti lo rende grande è che, proprio come accade con le persone di ampio spessore culturale, che riescono a esprimere riflessioni e pensieri complessi con concetti e parole semplici, così questo vino sa trasmettere tutta la sua levatura traducendola in una estrema facilità di beva: nonostante l’enorme ricchezza, non stanca mai.
Un vino generoso, capace di donare tanta gioia.
Da abbinare alla compagnia di persone care, ma sta molto bene anche con salumi e formaggi di media stagionatura. Perfetto con l’agnello porchettato.
Perché David Landini… ha un suo modo di vedere le cose.
E a noi è piaciuto tanto il suo punto di vista.
Un abbinamento da Sapiens
E’ indubitabile che per festeggiare un incontro o sottolineare e la piacevolezza dello stare insieme sia quasi immediato pensare ad uno champagne. Senza nulla togliere all’effettiva qualità e al valore simbolico del più celebre spumante francese, ci permettiamo di suggerire altrimenti (qualcosa sulla nostra idea di abbinamento si può leggere qui).
I motivi che ci fanno uscire, per così dire, fuori dal classico “ostriche e champagne” sono tre:
1. Il vino che abbiamo in mente è in se stesso un incontro e un matrimonio d’amore;
2. Questo incontro poi si “sposa” assai felicemente con un altro elemento tipico della giornata degli innamorati, ossia il cioccolato;
3. Infine si tratta di un vino che è dolce, ma non stucchevole. Molto morbido, ma fragrante al tempo stesso.
4. Questo quarto punto è un Bonus, perché è ora che lo sappiate: l’abbinamento ostriche e champagne è terribile! Qualcuno doveva dirlo.
Meglio champagne e foie gras. Per le ostriche invece, vi suggeriamo di aggiungere una goccia di Vernaccia di Oristano Doc. Ma questa è un’altra storia…
Oggi vogliamo parlarvi di un grande vino prodotto dai nostri cari amici Mario Pojer e Fiorentino Sandri che si chiama Merlino, perché è magico davvero (cf. qui).
Un’idea che viene da lontano
Il più grande problema dell’enologia dei secoli anteriori a Pasteur e alla moderna tecnologia di vinificazione era quello di conservare il vino. Uno dei rimedi più efficaci, scoperto a metà del XIII secolo, fu quello di aggiungere al vino altro alcool, per impedire fermentazioni e acetificazioni indesiderate.
Oggi sappiamo il perché di questa tecnica: con un elevato grado alcolico, i lieviti fermentativi muoiono; e se l’alcool viene aggiunto a fermentazione non completa, rimarrà nel vino un residuo zuccherino, che manterrà quindi un gusto dolce al liquido. Questa in sostanza è l’idea che soggiace al Porto, forse il più conosciuto al mondo fra i vini cosiddetti fortificati.
O, per chi preferisce il lessico alla francese, vini mutizzati. I cugini d’oltralpe infatti, con il loro consueto estro comunicativo, chiamano l’aggiunta di acool mutage, mutizzazione, giocando sul fatto che con il conseguente aumento di gradazione alcolica cessa il ribollire gorgogliante del mosto in fermentazione.
Un pò di Porto in Trentino
Dai loro viaggi di studio e confronto, in zone e cantine celebri, Mario Pojer e Fiorentino Sandri riportano sempre idee e fermenti. Fin da subito virtuosi distillatori – celebre è l’aneddoto che racconta come la guardia di finanza scoprì la grappa clandestina che il giovane Fiorentino Sandri distillava a casa -, ebbero l’intuizione di usare il loro brandy per fortificare uno dei vini che producevano.
Così divennero l’unica azienda italiana che produceva in proprio i due elementi che formano un vino fortificato (convinti fautori di collaborazione e associazione, si distinguono anche per il contributo al risveglio della sensibilità per la produzione italiana del distillato: cf. qui ). Il controllo della qualità è pertanto assicurato e gli standard produttivi non si abbassano mai.
Rispetto al celebre Porto, la via della fortificazione è gestita in modo un pochino diverso. Se sulle rive del Douro lo stile ossidativo è piuttosto marcato, e famosi sono i Vintage, con lunghi affinamenti in bottiglia, a Faedo è solo il brandy ad essere lungamente invecchiato.
Il risultato è un’incredibile miscela di sentori. Proprio dal lungo affinamento in botte, del brandy sono il profumo di cacao, di vaniglia, di spezie. Dall’altra parte, i sentori fruttati di ciliegia e di marasca fanno parte del tipico “corredo” del lagrein, che conserva – all’interno del prodotto finale – tutta la sua fragrante freschezza.
Due componenti fusi insieme
Per distillare il brandy, si parte da una base che di fatto è una porzione del vino che verrà poi usato per le basi spumante dell’Azienda. Quindi una particolare spremitura da uve chardonnay, pinot nero e pinot bianco. Inutile dire che la qualità è alla base! Per non parlare dell’esperienza e delle innovazioni nel processo di distillazione in quel di Faedo! Basti ricordare che il liquido alcolico affina almeno 10 anni in botte, poi un altro periodo in acciaio.
L’assemblaggio con il lagrein avviene quando il mosto in fermentazione arriva intorno ai 4 gradi alcolici. La percentuale di brandy che si aggiunge al lagrein arriverà a circa il 30-40 % della porzione totale. Una volta assemblati, ai due liquidi si lascia ancora del tempo per amalgamarsi meglio, nella quiete silenziosa delle botti dove era stato ad affinare il brandy.
Una sorta di luna di miele, in cui il brandy porta il lagrein a conoscere i luoghi dove lui è maturato.
Solo quando i due hanno avuto modo di fondersi insieme, esaltando l’uno le caratteristiche dell’altro, il Merlino viene imbottigliato. Un’altro colpo di genio: indicare in etichetta le due annate: ad esempio, sulla bottiglia che è uscita sul mercato nel 2021, la vendemmia del brandy è quella del 2005 e quella del lagrein è la 2018.
Un caleidoscopio di sensazioni, da completare con un ultima gioia
Un vino unico e armonico, in cui solo la forzatura di un esame organolettico da professionista scomporrà i vari elementi. La magia del Merlino consiste proprio in un’equilibrata complementarietà. La dolcezza portata dagli zuccheri residui nel mosto “mutizzato” è bilanciata dalla freschezza del brandy.
Un vino dolce ma non sdolcinato, quindi. Il tannino, comunque presente nel lagrein, è ammansito dalla morbidezza della componente alcolica. Una struttura importante e un corpo di tutto rispetto, allegeriti però dai sentori e dagli aromi fini e delicati della frutta del lagrein.
Un connubbio che paradossalmente dà il meglio di sé aprendosi a stimolazioni sensoriali terze: in un palato intriso dall’untuosità del burro di cacao e già colpito dai tannini presenti nel cioccolato, non può avere piacevolmente spazio il sorso di un rosso qualunque. Occorre un vino duplice, che agisca sui due fronti, pur rimanendo sempre e armonicamente uno.
L’assaggio di cioccolato e di vino non provocherà una sensazione gustativa consequenziale, ma all’interno della bocca i due elementi potranno fondersi davvero, amplificandosi e raggiungendo un effetto di piacevolezza ineguagliabile.
Nell’estate 2020 viaggiammo in Sardegna, non per tuffarci nel suo mare cristallino, ma per una settimana di full immersion nelle cantine e nella cultura dei vini ossidativi della costa occidentale dell’isola.
Per certi versi, era un mondo a noi quasi del tutto sconosciuto. Eppure, qualche idea preconcetta la avevamo. Sentori e sapori del vino ci costringevano a rimodulare i nostri canoni gustativi, e lo facevamo volentieri.
In testa, però, rimanevano alcune considerazioni teoriche, mandate a memoria durante lezioni e corsi, in base alle quali avevamo alcune ipotesi di abbinamento. In parte già verificate, altre che avemmo il piacere di verificare insieme ad alcuni produttori: al cospetto di vignaioli inizialmente increduli, fu davvero emozionante assistere alla loro sorpresa, nel gustare di nuovo il loro vino abbinato a cibi cui non avevano mai pensato prima.
Analogo scetticismo, però, lo provammo anche noi di fronte alla proposta, fattaci da un giovane produttore di Vernaccia di Oristano, di abbinare le sue etichette con frutta fresca di stagione, anguria o melone.
Scetticismo e sorpresa, perché fra sommelier circola un dogma: con la verdura e la frutta a sé stanti non si abbina nessun vino. In quell’occasione, tuttavia, non potemmo fare tale esperimento: così rimase in sospeso quell’insolito accostamento, che Davide Orro ci assicurò perfettamente riuscito e piacevolissimo.
Sorrideva, come fa spesso, e questo poteva indurci a credere che ci apparecchiasse uno scherzetto. Allo stesso tempo, come fa altrettanto spesso, era fermo e sicuro di quello che diceva.
Quella circostanza mi è tornata in mente tempo dopo, leggendo alcune note del professor Tommaso Montanari, celebre divulgatore di storia e di cultura dell’alimentazione.
Derivata dai principi della medicina ippocratica e galenica, la dietetica medioevale intendeva – semplifico moltissimo – la digestione come un processo di combustione, per la quale un eccesso di cibi classificati come freddi sarebbe stato dannoso. Beninteso, il binomio freddo/caldo non si riferisce alla temperatura di servizio, quanto piuttosto ad intrinseche qualità.
Ad esempio, la freschezza e l’acquosità di troppa frutta potrebbero rischiare di alterare il naturale calore dell’organismo. Secondo questa visione, gli umori corporei debbono essere in equilibrio, e per non alterarlo, cibi dalla “frigidità” eccessiva occorre che siano temperati, da una cottura vera e propria o almeno dall’accostamento con il vino, bevanda dall’intuibile qualità calda.
Fra i curiosi aneddoti che Montanari cita ad illustrazione delle sue narrazioni, ricordiamo l’abitudine della pera cotta nel vino e un’usanza – a noi finora sconosciuta – tipica della Francia, di consumare il melone con un bicchiere di Porto o di un vino dolce di gran corpo (M. Montanari, Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Bari 2009, 33-39).
Capite come leggendo le pagine di Montanari abbia dovuto immediatamente ricredermi su un’abbinamento a primo acchito giudicato improbabile: che anche l’anguria assieme alla Vernaccia di Oristano trovino la loro origine in saperi antichissimi, con una coerenza e visione olistica molto più originali e affascinanti di tante idee di abbinamenti strampalati e bizzarri?
Rimaneva solo la controprova delle sensazioni organolettiche provocate dall’accostamento in questione. E dobbiamo essere sinceri: per questa volta abbiamo rinunciato a compilare la scheda tecnica dell’abbinamento, utile sì a rendere evidente e ragionevole l’accostamento, riuscito o meno.
Eravamo in compagnia di amici bevitori: il consenso è stato unanime e contagiosa la sensazione di benessere e di piacevolezza. Ed è bastato questo. Esperienza ed erudizione convergevano con la soddisfazione del gusto! Un vero abbinamento da sapiens!!
D’ora in poi potremo sorprendere altri commensali, proponendo loro un vino anche per la frutta. E lo potremo fare non perché avvinazzati fino all’estremo, fino all’ultima portata, ma con un consapevolezza culturale nuova ed interessante.
Sebbene alcuni “cocomerari” romani amici ci abbiano una volta aperto il cuore svelandoci segreti e stili di vita di un vero venditore di angurie, non possiamo ora dare indicazioni su dove e come acquistare un buon cocomero. Possiamo indirizzarvi, invece, verso un’ottima Vernaccia di Oristano(qui), ed augurarvi un piacevolissimo ristoro.
Lo ammettiamo dall’inizio. Probabilmente nell’elaborazione di queste righe ha pesato anche una malcelata, sebbene sana, invidia: magari potessimo avere anche noi assaggiato migliaia e migliaia di calici, e fra i migliori del mondo!
Eppure, il rispetto che dobbiamo a chi ne sa sicuramente molto più di noi non ci esime dalla critica e dall’osservazione di incongruenze ed errori, qualora li notassimo. Sarà poi vero che due indizi non fanno una prova (secondo Agata Christie ne occorrerebbe un terzo) ma non ci pare solo una coincidenza aver letto parole sprezzanti e troppo genericamente sempliciste da parte del grandissimo esperto Hugh Johnson. In due occasioni, per due tipologie di vino a noi invece care, le valutazioni del critico inglese ci paiono esageratamente frettolose e poco approfondite, se non addirittura del tutto infondate e viziate da pregiudizi ingiustificabili.
In un’intervista al Washington Post dell’ottobre 2016, sui vini con importante macerazione disse: “Gli orange wine sono una pagliacciata e una perdita di tempo. A che serve sperimentare? Sappiamo già come fare il buon vino. Perché vogliamo buttare via la ricetta e fare qualcosa di diverso?”. Pagliacciata, fenomeno da baraccone: si possono lecitamente nutrire dubbi su mercati e tendenze, spesso in balia di mode passeggere e artificiali, eppure non si può davvero liquidare con tali parole un movimento come quello dell’amber revolution (per leggere l’intera intervista, cf. https://www.washingtonpost.com/lifestyle/food/some-wine-writers-benefit-from-aging-too/2016/10/21/ff952cee-9595-11e6-bb29-bf2701dbe0a3_story.html
Ancora più inaccettabili, perché false storicamente oltre che poco eleganti, sono le note che riguardano Marsala e il Marsala nell’imprescindibile libro di Johnson (Il vino. Storia tradizioni cultura, Borgo San Dalmazzo (CN) 1991, 466):
“Negli anni settanta del Settecento, Woodhouse aveva pensato che la Sicilia, poverissima e vittima del malgoverno dei famigerati Borboni di Napoli, in passato era stata una produttrice di vini greci, e poteva tornare ad esserlo. Andò a Malaga per imparare come si produceva il mountain, poi organizzò la sua versione di quel vino nei vigneti della Sicilia orientale, stabilendo il suo quartier generale a Marsala. La sua invenzione ebbe un grande successo a Liverpool, ma divenne famosa solo grazie ai suoi contatti con la flotta Mediterranea di Nelson. Prima della vittoriosa battaglia del Nilo, le navi di Nelson avevano imbarcato, invece del solito rum. il potente vino color castagna di Woodhouse. […] …la Sicilia divenne una colonia britannica: anzi, a un certo punto la regina si trovò tanto a corto di soldi, che la offrì in vendita alla Gran Bretagna per sei milioni di sterline. La presenza di diciassettemila soldati britannici e gli investimenti di Londra portarono molto benessere. Nel 1812 c’erano ben trenta consoli e viceconsoli britannici per controllare gli investimenti. Nei salotti di Palermo si instaurò perfino l’uso di parlare siciliano con accento inglese. In questo mini-boom, gli esportatori di Marsala erano in prima linea. Nelson ordinò cinquecento pipe (duecentotrentamila litri) del marsala di Woodhouse ‘da consegnare alle nostre navi a Malta’. Su queste basi fu costruita una delle più grandi fortune vinicole del diciannovesimo secolo, quando le famiglie Ingham e Whitaker presero il posto di Woodhouse come feudatari di questa curiosa colonia inglese nel paese della mafia”.
Da queste poche righe i più intenderebbero che a Marsala, prima degli inglesi, albergassero solo povertà e mafia. Eppure, se Woodhouse potè creare quello che effettivamente lui e il mercato inglese determinò (anche se provvidenziale all’inizio fu un fortuito fortunale che obbligò la nave di Woodhouse ad una sosta fuori programma nel porto siculo), ciò accadde perché a Marsala l’inglese trovò un prodotto vinicolo eccezionale, al di fuori del comune. Già, a suo modo e nella sua semplicità, tecnologico. Nelle botti (grandi) delle cantine familiari riposava per molti anni un vino forte e corposo, da uve grillo, che conosceva un curioso trattamento: ad ogni quantitativo di vino spillato dalla botte, veniva allo stesso momento aggiunta una corrispettiva parte di vino più giovane. Così, occasione dopo occasione, bevuta dopo bevuta, il vino diventava naturaliter “perpetuo”. La fortificazione allo stile inglese fu allora solamente un’esigenza di prudenza igienica, per permettere al vino di arrivare sano ed integro a Londra. Il Marsala come fenomeno di mercato era un vino diremmo industriale, per quantità e, poi, pure per qualità. Il Marsala prima degli inglesi era invece un vino domestico, familiare.
Anche il marsalese Marco De Bartoli, come secoli prima John Woodhouse, girò famiglia per famiglia, ma non alla ricerca di un prodotto da scommessa commerciale e da esportazione, quanto piuttosto per convincere gelosi custodi di liquidi ancestrali a cedergliene quanto bastasse per dare profondità (di anni) e ampiezza (di quantità) al suo progetto: di fatto il suo Vecchio Samperi nacque già perpetuo, grazie a quanto rimaneva nelle vecchie botti di famiglie, della sua e di altre.
E solo dopo aver assaporato un calice di Vecchio Samperi il nostro animo può essere così buono, da perdonare il pregiudizio comprensibilmente tutto british del caro Hugh Johnson. Capiamo che pur essendo un pozzo di cultura enologica, per parlare del Marsala non abbia saputo attingere altrove se non al suo gossip nazionalista. A lui indirizziamo le parole di un altro grande degustatore, abbagliato anche lui, ma dalla luce e dai profumi della Sicilia, che del Vecchio Samperi scriveva: “Si resta, francamente, ammaliati. Trattasi, nella categoria di cui fa parte, di un supremo vertice, in grado di sedersi al tavolo dei più eccelsi Madeira, Porto o Jerez, e senza il minimo timore reverenziale” (Armando Castagno).
Ora, perché il nostro Marsala prebritish o perpetuo che dir si voglia possa trovare posto anche in tante altre tavole, lo abbiamo reso disponibile nel nostro commercio on line [da mettere il link alla descrizione del prodotto] : potrete anche voi schierarvi, e compiacervi di poter contraddire il grandissimo critico britannico.
Ancora, per apprezzare ulteriormente le sorprendenti potenzialità del territorio (altro che mafia!), si può assaggiare anche una terza linea di prodotti a base uva grillo: il grillo può essere anche spumantizzato. Ecco la Terza Via e, in una sorta di sintesi fra le diverse tradizioni, Terza via riserva, con una piccola dose di Vecchio Samperi ad impreziosire il licoeur de tirage
(Dalla poesia alla scienza: i vini da flor)
“I suoi riccioli liquidi
sono coperti di fiori bianchi”
(Archestrato di Gela, IV sec. a.C.)
Secondo il grande storico del vino H. Johnson, questi frammenti dell’opera conosciuta sotto il nome di Poema del buongustaio, descrivono una bevanda alcolica a noi familiare!
Sì, nei suoi viaggi alla ricerca dei piaceri della tavola, il poeta della Magna Grecia aveva incontrato, sull’isola di Lesbo, un vino incredibile, che descrive proprio in questi termini. Ora, si potrebbe pensare lecitamente ad un’ebbra fantasia e ad un trasporto forse troppo accalorato da eccessive bevute.
Eppure, lasciata la poesia e senza poter essere certi dell’effettiva identità di quell’antico vino, di liquido alcolico “coperto di fiori bianchi” ne conosciamo anche noi, e di vari! Se la letteratura ci offre indizi per ricostruire tradizioni e legami, la scienza ci aiuta a capirli meglio.
Può essere infatti del tutto probabile che quell’antico vino greco sia avvicinabile a quelli che noi oggi definiamo come vini ossidativi, vinificati sotto “flor“, per dirla alla spagnola.
Dal punto di vista scientifico i “fiori” che si notano sulla superficie del vino in botte non sono altro che catenelle e raggruppamenti di lieviti microscopici dal comportamento curiosamente “sociale”.
Si tratta di uno strato che si forma, in particolari condizioni, sulla superficie del vino che viene messo a maturare in botti lasciate appositamente scolme, ossia non del tutto piene, e, quindi, con un’importante porzione di aria nel recipiente. Tale strato i microbiologi lo chiamano biofilm, i vignaioli francese dello Jura, con un tocco poetico degno di Archestrato, lo chiamano “voile“, velo.
Tornando alla biologia, alcuni ceppi di lieviti, i principali protagonisti della trasformazione del mosto in vino, hanno un patrimonio genetico del tutto eccezionale, che li rende capaci di una doppia vita.
Ad un certo momento della loro avventura nel mosto derivato dalla pressatura delle uve, quando già hanno compiuto il prezioso lavoro di decomposizione degli zuccheri e della loro trasformazione in alcool, cominciano a spostarsi sulla superficie del liquido. Nella fase sommersa, l’ambiente è ad essi favorevole, ricco di sostanze che sono il loro cibo.
Ma se per i normali lieviti, il prodotto di scarto di questo processo nutritivo, ossia l’alcool etilico, alla fine diventa irrimediabilmente fatale e l’habitat che fino a poco prima li deliziava e li nutriva diventa saturo e insopportabile fino a dar loro morte, i lieviti “flor“ hanno una risorsa nascosta: stressati dalla situazione che si va facendo sempre più minacciosa e che cambia ad ogni ora che passa, essi alterano a loro volta il loro metabolismo e accendono un gene particolare, che li rende capaci di “mangiare” anche l’alcool.
In questa nuova fase di vita, diventano idrofobi, e nelle loro membrane cellulari si sviluppa una proteina, chiamata adesina, che favorisce l’aggregazione. Così miliardi e miliardi di microorganismi si ritrovano sulla superficie del vino e si aiutano nel gestire gli scambi con l’ossigeno della botte scolma, sopra di loro, e con l’alcool, al di sotto. Sì, perché nel frattempo, da anaerobi sono diventati aerobici.
Tutto questo prodigio, qui fin troppo banalmente semplificato, è minuziosamente studiato e descritto da fior (è il caso di dirlo) di scienziati. A noi, appassionati di vini, affascina e interessa, ma il giusto, per capire il mistero di tali vini, impreziositi dall’opera mirabile di questi piccoli amici, che permettono al vino di gestire e di vincere la sfida con l’ossigeno, e quindi con il tempo, e di arricchirsi di precursori di aroma e di complessità del tutto particolari, dovuti all’acetaldeide, che è il prodotto di scarto della seconda fase delle grandi scorpacciate dei lieviti flor.
Di questi ultimi è stata perfino tentata una storia evolutiva assi interessante, secondo la quale la mutazione genetica fatidica dovrebbe aver avuto inizio o in Libano o nel sud-ovest della Spagna. Una sorta di mappa immaginaria e favolosa la si può tratteggiare anche osservando i luoghi dove i vini ossidativi venivano e vengono prodotti.
Ad eccezione dei vini dello Jura, le altre tipologie paiono accomunate dalla vicinanza del mare e di porti, come se ci fosse un legame fra ossidatività e “navigabilità” di tali vini. Il che sarebbe un altro coerente indizio per l’ipotesi di Johnson del vino di Archestrato come di un vino da flor.
Se molti sono ancora i misteri di tale insolita e prodigiosa vinificazione, tante sono le scoperte e le storie che possono accompagnare e illuminare gli assaggi di vini ossidativi. Ne condivideremo ancora parecchie, con voi.
Nel frattempo perché non iniziare a stappare?
Proponiamo due etichette. Rimanendo in ambito isolano, come il vino di Lesbo, entrambe provengono dalla Sardegna. Può destare curiosità la particolare bottiglia della prima, adornata da una serigrafia raffigurante la pavoncella sarda, che secondo alcune leggende, risorgerebbe dalle proprie ceneri: una doppia vita, come i lieviti flor.
Il vino rimane in botte scolma almeno per 5 anni, eppure ha una freschezza inaspettata ed incredibilmente giovanile! (vernaccia di oristano)
Le sapienti mani di Davide Orro e della sua famiglia curano tutte le fasi della produzione, guidate da l’obiettivo nobile e coraggioso di riportare in auge un territorio ed un vino tradizionale con idee innovative e assolutamente moderne. Sono passati pochi mesi dalla nostra visita al museo da lui ideato, ma è stato di nuovo arricchito ed ampliato, da renderlo meritevole di un’altra visita (cf. https://www.ecomuseovernacciaoristano.it).
La seconda etichetta, per innamorarsi da subito dei vini ossidativi, viene dalla storica cantina di Bosa, fondata da Gianbattista Columbu. Fiori di assenzio e liquirizia, il naso racconta la macchia mediterranea che circonda i vigneti, e il mare che riflette la luce della costa orientale dell’isola: un terroir benedetto, dove oggi Gianmichele e Vanna resistono, felici di aver come fiore all’occhiello della loro produzione di nicchia un vino fatto apposta perché sia bevuto insieme e sia parlato.
E, di certo, ne parleremo ancora. (malvasia di bosa)
Per chi avesse una forma mentis matematica o fosse a contatto quotidiano con l’informatica, la parola abbinamento forse richiamerebbe il fondamentale sistema binario. Ad un appassionato di sport, la stessa parola farebbe venire in mente gli accoppiamenti sorteggiati per le varie fasi di un torneo.
Anche nella moda e nell’abbigliamento, l’abbinamento è un aspetto importante e per nulla trascurabile. Avvicinandoci all’etimologia della parola, potremmo immedesimarci in tante generazioni di studenti di lettere antiche, alle prese con una serie un pochino astrusa di aggettivi numerali latini, i distributivi, cioè quelli che con una sola parola indicavano quanto in italiano bisogna rendere in modo più complesso: “a due a due”, era, ed è, traducibile con bini, -ae, -a.
In tutti questi casi abbiamo a che fare con una visione della realtà secondo la quale le cose vanno osservate e comprese in modo non singolare e unilaterale. Si tratta di accoppiare cose, situazioni, numeri, persone etc. in base ad un principio basilare: la singolarità si arricchisce dallo scambio con l’alterità.
In ambito enogastronomico dell’abbinamento si è fatta una teoria, una scienza: il food pairing arriva a studiare perfino la dimensione molecolare, per comprendere se e come due pietanze possano stare bene insieme, così pure se un piatto possa essere “innaffiato” piacevolmente da un determinato vino. C’è da rimanerne davvero affascinati! E se capiterà, ne vedremo esempi concreti, e ne parleremo.
Ora ci interessa, rimanendo ad un livello più astratto, cercarne i fondamenti, che poi si verificheranno nelle varie occasioni. Né vogliamo in questo momento appesantirci con definizioni ed equazioni, discettando di succulenza che trova corrispondenza contraria ed equilibratice nell’alcoolicità. Lo vedremo man mano.
Ci piace invece introdurci ad un mondo in cui, di nuovo, tradizione ed innovazione si completano mirabilmente. Constatiamo infatti che, come tante volte abbiamo sentito dire da uno dei nostri maestri, “una casalinga veneziana sapeva benissimo che l’asprezza del fegato doveva essere mitigata dalla dolcezza della cipolla”, e che mentre l’amarognolo veniva temperato allo stesso tempo poteva essere esaltato.
Senza aver studiato scienze culinarie o divorato manuali di chimica dell’alimentazione, la tradizione le attestava una prova di bontà; la natura poi le donava la particolare cipolla bianca di Chioggia.
Le odierne discendenti di quella matrona potranno ora giovarsi di letture e di corsi specifici, potranno magari esercitarsi ripercorrendo puntate e puntate di chef divenuti star televisive. Eppure, si muoveranno similmente nella stessa comprensione della realtà che faceva esclamare ad un autore biblico, nel contemplare la creazione divina:
“Quanto sono amabili tutte le sue opere! E appena una scintilla se ne può osservare…Tutte le cose sono a due a due, una di fronte all’altra, egli non ha fatto nulla d’incompleto. L’una conferma i pregi dell’altra: chi si sazierà di contemplare la sua gloria?” (Sap 42,22-25).
Ebbene, noi di Vino Sapiens, un pò insaziabili lo siamo, e sappiamo che una cosa bella e buona è un valore, ma una cosa bella e buona vissuta ed assaporata insieme ad un’altra, altrettanto buona, è ancora meglio. Per di più, gustate appaiate anche le cose più spigolose e forti assumono nuovi ed inaspettati sapori.
Ma perché poi limitare questa arte del ben gustare al cibo e al vino. Non si possono abbinare emozioni o stati d’animo? E’ celebre e leggendaria la frase che avrebbe pronunciato madame Bollinger:
“Bevo il mio Champagne quando sono felice e quando sono triste. A volte lo bevo quando sono sola. Quando ho compagnia lo considero obbligatorio. Ne sorseggio un po’ quando non ho fame e lo bevo quando ne ho. A parte questo, non lo tocco mai − a meno che non abbia sete”.
Ben al di là di questa sintesi iperbolica, perché davvero non convincersi della ragionevolezza nell’imparare a confermare a vicenda i pregi di bellezze differenti? Affiancare il giusto calice di vino ad una lettura, non aiuterebbe ad addentrarsi con più trasporto nella trama narrativa? Mentre i sensi sono tutti rivolti a percepire una buona musica, offrire all’odorato e al gusto gli effluvi di un vino scelto perché capace di evocare altre emozioni o ricordi sarebbe dissonante o, al contrario, permetterebbe di apprezzare meglio e l’una e l’altro, la musica e il vino?
In una visione corretta, ma forse limitante, l’abbinamento eno-gastronomico viene inteso in senso tecnico ed edonistico.
Nel primo caso l’equilibrarsi delle diverse e contrastanti sensazioni gustative di cibo e vino permette una sorta di reset del palato, favorendo e invitando ad un nuovo boccone ed un ulteriore sorso.
Così ad ogni menù di successo si affianca la valida consulenza di un sommelier, perché né il piatto né il calice stanchino i commensali. Oltre a questioni tecniche e di fisiologia del palato, è evidente l’aspetto edonistico dell’abbinamento: la piacevolezza a tavola è fonte di benessere e di soddisfazione.
Quanto al piacere edonistico, in gioco c’è ancora dell’altro; “una cosa conferma i pregi dell’altra”, si tratta di comunione armonica, di servizio reciproco delle cose, di un’estetica della collaborazione e della sinergia, che amplifica il piacere e lo dilata.
Paradossalmente, i contrasti, in una più profonda visione dell’abbinamento, sono cercati e giocati insieme. Sapori forti, che in sè giudicheremmo troppo estremi, appaiati ad altrettanti gusti al limite del consentito, si rivelano combinati artisticamente.
Non mera tecnica, né solo edonismo, raffinato che sia: noi vorremmo avviarci, insieme, abbinati alle esperienze di tanti, appunto verso un’arte, una cultura dell’armonia e della bellezza, diremo quasi una sorta di contemplazione.
Per comporre le quali, non si potrà di certo partire da sapori banali e “piacioni”, o da fonti emozionali scontate e ripetitive. Un libro scritto per piacere a tutti, una canzone orecchiabile fino alla noia, un quadro immediato e tutto svelato, non necessitano di altro per essere graditi.
La semplicità della fruizione è proporzionale tuttavia alla persistenza e all’intensità emotiva coinvolte. Fenomeni perfino respingenti, invece, accompagnati dal giusto sfondo potranno risultare in una sintesi perfetta di splendore sapiente e inaspettato.
Ci rimarrà la questione di quale sia lo sfondo e quale il protagonista. Sarà più gustoso leggere un libro sorseggiando un calice, o piuttosto sorseggiare un calice leggendo un libro? Dovremmo scegliere un cibo pensando al vino che ho in mente, ovvero cercare il miglior vino possibile per il piatto che si sta preparando?
Magari la risposta non sarà sempre la stessa, o sarà spiazzante, facendoci scoprire trame misteriose nel reale. Di sicuro, ci divertiremo e si affinerà sempre più la nostra sensibilità.
E, di nuovo, forse, cambierà la nostra prospettiva. D’altronde, davvero sapiens era anche chi quasi un millennio fa disse:
“ciò che per me prima era amaro, ora mi è dolce”
…Sarà un caso che quello che è stato riconosciuto come il miglior ristorante del mondo si chiami Osteria francescana? https://osteriafrancescana.it/it/