Il vino ha accompagnato la civilizzazione e la civiltà in tutte le ere. È stato una chiave interpretativa fondamentale dell’evoluzione sociale, il suo specchio. In un certo senso il modo di bere, il gusto del vino, offre una cartina tornasole del grado di consapevolezza, della cultura e del livello tecnico scientifico raggiunti in ogni generazione. Tutto all’interno di un calice.
Il vino infatti non è solo una questione di prodotto, ma prima ancora esso è relazione. Poiché nasce in un territorio specifico, da un’annata unica e irripetibile, e attraverso la mano sapiente di uomini e donne che decidono di volta in volta gli interventi che ritengono più adatti in base alla loro personalissima sensibilità. Ma la relazione non si conclude con l’imbottigliamento: essa prosegue con l’affinamento e infine mediante l’incontro del vino con il degustatore e con la sua capacità di “ascoltare” ciò che il calice sussurra.
Una forma d’arte molto suggestiva dunque, che a partire dalla terra e dal lavoro porta con sé un meraviglioso bagaglio di beni immateriali e racconta il genius loci che l’ha creata. Vale certamente la pena equipaggiarsi di questa modalità di comprensione: l’assaggio “relazionale” per poter apprezzare la capacità comunicativa del vino.
L’approccio alla degustazione non è, invero, molto distante dall’incontro con una persona. Quando conosciamo qualcuno infatti, per prima cosa notiamo le fattezze esteriori le caratteristiche fisiche che già ci indicano alcune informazioni sulla sua personalità.
Nel vino gli elementi visivi come il colore, la consistenza, le tracce lasciate sulle pareti del calice, sono indicativi di cosa aspettarsi di trovare all’interno. Ma proprio come accade con le persone, è necessario non fermarsi al primo sguardo, esso infatti non offre un quadro esaustivo. È opportuno proseguire la conoscenza.
L’analisi olfattiva permette di comprendere, ad esempio, alcune caratteristiche del percorso evolutivo. Gli odori possono svelare aspetti relativi alla maturazione dell’uva, alla probabile aggressione di funghi, alla fase fermentativa e, infine all’eventuale affinamento e in quale contenitore sia avvenuto. Dall’odore si capisce molto anche sugli individui. Si pensi al tema, ad esempio, delle abitudini igieniche, di quelle alimentari, dei feromoni…
L’olfatto è un senso molto profondo e intimo, forse il più intimo che abbiamo. Le molecole odorose, infatti, non solo attivano il sistema olfattivo, ma raggiungono anche l’ipotalamo, la regione del cervello deputata alle emozioni e ai ricordi. E lo fanno bypassando la corteccia cerebrale, ovverosia il risultato dell’evoluzione del Sapiens, per arrivare direttamente al “cuore”, al ricordo. Il ricordo è nettamente differente dalla memoria, la quale ha a che fare più con la capacità di catalogare e rendere presenti informazioni. In questa distinzione ci viene in aiuto l’etimologia: dal latino, ri-cor/cordis: cuore/corda. Il ricordo fa letteralmente vibrare le corde del cuore, ed è proprio lì che giungono le molecole odorose, l’essenza stessa dell’Altro che da esso si separa per volare fin dentro il nostro intimo più profondo, il cuore (del cervello). Quale meravigliosa realtà!
Infine l’analisi gustativa. Essa svela l’epilogo di un racconto e permette inoltre di verificare la narrazione ricevuta attraverso gli altri sensi. Negli individui, sono i contenuti offerti dalle parole a mostrare, più di ogni cosa, gli aspetti più profondi e intimi della personalità. Similmente il vino svela molto di sé all’assaggio, dalla composizione del suolo che ospita le radici del vitigno al tappo con cui è stata sigillata la bottiglia. Ma il senso del gusto merita un capitolo a sé.
Sembrava non dovesse arrivare mai questo momento, e invece ci siamo.
L’ARSIAL, ente che promuove lo sviluppo e l’innovazione del sistema agricolo e agro-industriale del Lazio insieme al CREA, principale Ente di ricerca italiano dedicato alle filiere agroalimentari, hanno organizzato una Masterclass gratuita dedicata ai vini sperimentali ottenuti dalla vinificazione di vitigni autoctoni e resistenti.
Titolo degli incontri è “La biodiversità incontra i vitigni resistenti”. La degustazione, in programma il 28 novembre e il 5 dicembre 2023 nelle sede Azienda Sperimentale Arsial di Velletri (RM), sarà divisa in due sessioni distinte, e condotta da tecnici Arsial e Crea/Ve (cf. qui il comunicato stampa ).
Tutti i vini sono ottenuti dalla vinificazione delle uve prodotte nel “Vigneto Biodioversità”, impiantato all’interno dell’azienda Arsial di Velletri. Le varietà resistenti impiegate per il taglio, nella misura massima del 15%, sono il Soreli per i bianchi, il Carbenet Volos e il Cabernet Eidos per i rossi.
Qualcosa si muove
Già lo scorso anno avevamo partecipato alla prima degustazione delle microvinificazioni di varietà resistenti realizzate dal Centro Enologico Sperimentale di Velletri. Per ora son 10 i vitigni ammessi alla coltivazione nella Regione Lazio: Fleurtai, Soreli, Sauvignon Kretos, Sauvignon Nepis, Sauvignon Rytos, i bianchi; e i rossi Julius, Cabernet Eidos, Cabernet Volos, Merlot Kanthus, Merlot Khorus. L’assaggio dei vini ottenuti dalle microvinificazioni aveva mostrato ottime speranze per l’avvenire.
Il nostro punto di vista
Ci rallegra molto che anche la Regione Lazio abbia aperto ai Piwi, soprattutto considerando le difficoltà incontrate, particolarmente in questa zona, in annate come quella appena trascorsa. Certamente la messa a dimora di varietà resistenti è una risorsa strategica importante per una gestione sostenibile del vigneto.
Ci auguriamo che i bravissimi produttori laziali sappiano presto trovare, al pari dei colleghi del nord Italia, le giuste chiavi interpretative per comunicare sempre più e sempre meglio la grande qualità che contraddistingue da secoli il vino di casa nostra. Attendiamo con impazienza il giorno in cui potremo introdurre nella carta di Vino Sapiens delle ottime etichette Laziali da varietà resistenti (nel frattempo, scarica la nostra piccola guida, qui.)
Ci congratuliamo, già da ora, per il lavoro di ricerca condotto fin qui dai protagonisti di questo settore. Ad astra!
Ho avuto l’occasione di partecipare ad una serata eccezionale, quelle di cui si potrà dire “io c’ero”: una verticale storica di trenta annate di un vino bianco: Terre Vineate, Cantina Palazzone.
Del resto il produttore, Giovanni Dubini, è per me un riferimento da lungo tempo.
Pensando a lui, mi viene spontaneo associarlo al tolkeniano Aragorn, nella sua veste di ramingo: Granpasso, colui che cammina velocemente con le sue lunghe gambe attraversando la terra di mezzo, da est a ovest.
Sarà perché, come Aragorn, anche Giovanni Dubini cammina per il mondo intero. Cioè, per la verità pedala in giro per il mondo in sella alla sua mountain bike. O forse sarà per la sua figura alta e longilinea.
Ma sospetto che soprattutto sia per l’incredibile capacità di dare nuova vita alla gloriosa dinastia dei vini di Orvieto, un territorio “vineato” quasi del tutto perduto nel corso della storia, che sembrava essere inesorabilmente giunta al suo declino.
A cominciare dall’antica Locanda Palazzone – vedete che ho ragione, c’è perfino la locanda a suggellare il parallelismo con Aragorn – Giovanni interpreta con rinnovato vigore e fierezza il suo territorio e ne racconta virtù e pregi attraverso gli incredibili vini che da esso trae.
Credo sia questo particolare slancio, la fede che ha sempre riposto in questo luogo, il motivo che racchiude il mistero, il segreto della sua saggezza. Quasi ad essere una specie di mistico custode dell’Orvieto.
È una persona davvero affabile Giovanni, ma è altresì discreto e di poche parole. Quelle che servono. I vini che fa, invece, hanno molto da dire.
Questa cosa la so fin dal primo incontro e fin dal primo assaggio. È lui che mi ha fatto comprendere come mai i vini di Orvieto sono stati tra i più famosi al mondo. E non me l’ha spiegato a suon di parole. L’unica cosa che mi ha detto, lo ricordo ancora come fosse ieri, è stata: “Tieni, assaggia questo – versando il vino nel mio calice – Capito, sì?”.
Incredibilmente… Sì, avevo capito!
Più che al livello intellettivo, in quel momento avendolo assaggiato, assaporato, mi sembrava piuttosto di poter comprendere in maniera davvero molto misteriosa – ed era ancora dentro di me – la grandezza di un grande vino bianco.
Non ne afferravo i termini, non ho nemmeno provato a definirla, ma intuivo di essere al cospetto di qualcosa di molto insolito, di molto diverso dalla maggior parte dei vini bianchi assaggiati fino a quel momento. Avevo trovato quel calice elegante, leggiadro, e allo stesso tempo di infinita eloquenza.
È un concetto difficile da definire quello di “grandezza” di un vino. Fino a pochi anni fa, spesso era sinonimo di potenza: profumi intensi e sfacciatamente penetranti, sapore deciso, corposo e pieno. Ma quel calice si presentò in maniera molto diversa dai grandi blasoni dell’orvietano e, più genericamente, dai soliti noti italiani e internazionali.
Assaporare Campo del Guardiano ha acceso immediatamente in me desiderio e curiosità. Da un lato di conoscere questo affascinante territorio, la sua storia, la tradizione, la cultura, che quel bicchiere aveva iniziato a raccontarmi. Ma allo stesso tempo, desiderio e curiosità di conoscere vini bianchi autentici e di grande longevità. Perché l’etichetta che mi era stata offerta, non era dell’annata corrente. Aveva ben 5 anni di affinamento in bottiglia e all’epoca – parliamo ormai di 15 anni fa – era una situazione insolita da trovare.
E nel mio cuore è sorta chiara, quasi fosse una necessità, la domanda: cos’è mai questo vino?
Ripeto, non riuscivo ancora ad afferrare bene cosa stesse succedendo. Sapevo solamente di voler ripetere quell’esperienza, di volerne ancora.
Ci trovavamo al Salone delle Fontane, a Roma, durante una importante fiera di settore. Avevo terminato il corso per Sommelier da qualche tempo, quindi pensavo di essere super esperta e, per giunta, avevo alcune certezze nella vita. Una di queste era che il vino buono sapeva… di legno. Eh lo so, ma all’epoca era così. Quelli buoni odoravano di vaniglia, burro e boisé e al palato erano morbidi, rotondi e perfetti.
Nel corso degli anni abbiamo avuto modo di conoscerci meglio con Re Giovanni, di passare qualche momento insieme. Il suo stile, nel vino come nella vita, segue sempre il tracciato dell’autenticità. Non è uomo di tanti fronzoli, è schietto nel trasmettere quello che pensa. È fortemente ancorato alle tradizioni del suo territorio intese come best practice trasmesse di generazione in generazione.
E, come dire, si vede che fa parte di quelle persone che cercano di rimanere fedeli a loro stesse passando la vita alla scoperta della propria vocazione, del proprio posto nel mondo, sarà per questo che l’ha “pedalato” praticamente tutto. E così i suoi vini.
Ciò si è reso evidente durante la degustazione del 5 maggio 2023, dove abbiamo potuto assaggiare tutto il lavoro svolto per trent’anni, un progetto portato avanti con convinzione e coraggio, necessari a destrutturare i suggerimenti del mainstream su come debba essere il vino e in particolare, un grande vino bianco di Orvieto.
E – al pari tutti i tradizionalisti autentici – va da sé, Giovanni è anche un grande innovatore.
“La tecnologia ci permette di risolvere numerosi problemi. Noi qui la utilizziamo cercando di realizzare e mantenere sempre più integro il vino”. Con queste parole ha introdotto la magnifica serata celebrativa per i trent’anni dalla prima etichetta di uno dei suoi vini più rappresentativi: il Terre Vineate.
Più tardi, dopo aver già assaggiato le prime cinque annate, gli ho chiesto cosa intendesse per “mantenere il vino integro attraverso la tecnologia”. Per conoscere la sua risposta guarda il video.
Giovanni cerca di realizzare un vino mantenendolo più integro possibile. Se hai guardato il video, hai certamente compreso come questa sensibilità si trasformi in concrete pratiche produttive come, nell’esempio citato da Giovanni, l’utilizzo del flottatore, un macchinario che permette l’illimpidimento per via meccanica anziché chimica, evitando quindi l’uso di bentonite o simili.
In che modo si traduce tutto ciò nel calice? Cosa comporta avere questo approccio? Direi che un ottimo indicatore sia l’esito finale e cioè la qualità del vino e la sua capacità di attraversare il tempo, da una parte, e dall’altra la non omologazione, l’originalità intesa come unicità. Qualità e originalità del vino sono, secondo Giovanni Dubini, due elementi che derivano dal terroir, inteso come suolo, esposizione, clima, e dall’annata.
Non è possibile infatti avere ogni anno un vino identico alla sua edizione precedente: perché oltre che di un territorio specifico cui offre dimora, ogni etichetta è figlia della sua annata e anche di essa mostra i segni.
Ebbene posso testimoniare che di quindici vintage di Terre Vineate, dalla più recente, la 2021, alla più antica, la 1993, tutte erano assolutamente vitali, senza alcun cedimento alla decadenza, men che meno all’appiattimento. Ognuna diversa dalle altre, con una propria personalità a raccontare le vicende e le avventure dell’annata da cui hanno tratto origine e quelle del territorio che le ha viste prender forma. È stato come ascoltare una cronistoria, leggere il diario segreto che ogni bottiglia aveva annotato.
Per di più questo è accaduto non già per un vino concepito per l’evoluzione; Terre Vineate infatti nasce per la quotidianità.
Appare dunque sempre più evidente che quando i produttori seguono la strada, seppur faticosa e incerta, della ricerca di autenticità – quasi come mantenersi fedeli a una promessa, quella di custodire il giardino, la nostra casa comune – questo fa la differenza. E nasce un sapore nuovo, autentico, non più edulcorato, che non scende a compromessi con ciò che chiede il mercato, e da cui deriva l’inevitabile omologazione.
Eccolo il segreto di Giovanni. È un segreto che accomuna tutti i bravi genitori, tutti i migliori educatori, tutte le persone intelligenti: lavorano per far crescere, traendo il meglio che ciò di cui si occupano abbia da offrire, preservandone ad ogni costo la vocazione, il desiderio profondo del cuore.
A Giovanni Dubini il merito di non essersi arreso di fronte alla sfida di credere nelle sue – è proprio il caso di dirlo – radici. Le etichette di Cantina Palazzone ci fanno ben comprendere come mai il vino di Orvieto è stato tra i più famosi al mondo.
Perché così è ogni grande vino: non solo da bere, ma da incontrare. Non da descrivere velocemente con tante parole, ma innanzitutto da ascoltare.
In un’epoca in cui l’attenzione per l’ambiente è al centro delle preoccupazioni globali, anche la wine industry è impegnata nella promozione di pratiche sempre più virtuose volte al migliore sviluppo possibile della sostenibilità in tutte le sue implicazioni.
Principio chiave nella viticoltura moderna, l’orientamento alla sostenibilità rappresenta l’impegno a produrre vino preservando le risorse naturali, proteggere l’ambiente e migliorare la qualità della vita delle persone coinvolte nelle varie fasi del ciclo produttivo, e delle comunità ad esse collegate.
Inevitabilmente la coltivazione delle viti richiede l’uso di risorse quantomai preziose come acqua, terra e fertilizzanti, ma l’industria vinicola è determinata a ridurre il proprio impatto ambientale.
Un grande lavoro è stato fatto in questa direzione anche al livello politico, si pensi ad esempio al European Green Deal (EGD) oppure al Piano d’Azione per la Transizione Energetica Sostenibile (PATRES) e alle molte altre iniziative degli ultimi anni. Su questa scia l’istituzione di Enti certificatori è stato sicuramente uno strumento utile per consentire alle aziende di dare compiutezza al loro impegno per la sostenibilità, ma anche per ottenere credibilità, differenziarsi, accedere a nuovi mercati e migliorare l’efficienza operativa.
In Italia, diversi Enti certificatori offrono programmi che si concentrano sulla sostenibilità nel settore vitivinicolo. Tra questi ricordiamo i principali:
“Equalitas è la società proprietaria dello Standard originato da un progetto per la certificazione della sostenibilità in ambito vitivinicolo il cui varo, avvenuto nel 2015, ha rappresentato il punto di arrivo rispetto ad anni di esperienze e confronti con il mondo accademico, la ricerca e le imprese.” *
La certificazione Equalitas copre tutti gli aspetti della produzione vitivinicola, dall’impianto del vigneto alla commercializzazione del vino. Il sistema si basa su tre pilastri fondamentali:
Equalitas, sebbene relativamente giovane, ha già certificato circa 1.000 aziende vitivinicole italiane, riscontrando dunque un enorme successo tra i viticoltori. A differenza di altri standard di sostenibilità, il sistema di valutazione Equalitas è stato sviluppato da un gruppo di stakeholder dell’industria vinicola italiana, che ha l’obiettivo di aggregare le imprese per una visione omogenea e condivisa della sostenibilità integrando e sviluppando con particolare riguardo anche il concetto di qualità.
La visione di base consiste nel ritenere che un’azienda debba saper “governare” la sostenibilità avendo come principale traguardo la migliore qualità vitivinicola possibile che è imprescindibile nella mission di un’azienda che produce vino e che deve essere implicito anche nel significato stesso di sostenibilità.
Ogni realtà vitivinicola può aderire gradualmente allo standard Equalitas e si può ricevere la certificazione a livello di azienda e/o di prodotto o addirittura di Denominazione. Proprio questo approccio in costante evoluzione, sembrerebbe essere il potenziale asset strategico per diventare un punto di riferimento chiave volto a incrementare sempre più la sostenibilità nella viticoltura italiana.
La certificazione da parte degli Enti offre vantaggi, anche dal punto di vista economico, davvero significativi per le aziende vitivinicole. Essere in grado di dimostrare un impegno serio, attraverso iniziative volte a migliorare la sostenibilità complessiva e la qualità del prodotto, può infatti incrementare in termini concreti la competitività sul mercato e rafforzare l’immagine del brand presso i consumatori.
Chi acquista vino, in Italia e all’estero, è sempre più attento alle questioni ambientali e sociali, e la certificazione di sostenibilità può influenzare positivamente le scelte. Fino a diventare addirittura il principale discrimine: i consumatori infatti, sono oggi sempre più informati e desiderano avere maggiore cognizione circa le pratiche aziendali utilizzate per produrre una bottiglia di vino. Si pensi ad esempio all’incremento della domanda di vini Bio degli ultimi vent’anni.
Allo stesso modo la nuova generazione di winelovers si aspetta di ricevere dall’azienda vitivinicola rassicurazioni, non solo riguardo le best practice ambientali, ma anche ad esempio, sulle condizioni di lavoro che riserva ai suoi dipendenti e se esse siano adeguate o meno alla migliore qualità possibile di vita.
*Per approfondimenti puoi consultare il sito di Equalitas
È sorprendente l’approccio innovativo con cui un gruppo di ricercatori italiani sta riscrivendo le regole dell’agricoltura riguardo alla difesa del vigneto dalle malattie funginee. Una vera e propria rivoluzione sostenibile portata avanti da Grape4vine.
I viticoltori di tutto il mondo sanno che proteggere le viti dai dannosi patogeni fungini come la Peronospora e la Botrite è essenziale per garantire un buon raccolto. Attualmente, la gestione di queste malattie richiede l’uso frequente di prodotti chimici, che rischiano di avere impatti negativi sull’ambiente e sulla salute umana. In media, un’azienda vinicola effettua tra 10 e 15 trattamenti l’anno con prodotti potenzialmente inquinanti, e ciò per di più comporta costi significativi, oltre a un importante consumo di acqua.
Molto è stato fatto fin qui grazie alla ricerca e all’esperienza sul campo, ma annate piovose come quella appena trascorsa e in generale l’attuale instabilità climatica, ci mettono davanti uno scenario davvero poco confortante.
L’esito delle sfide legate alle malattie della vite sta tuttavia prendendo una nuova svolta grazie a Grape4vine, un ambizioso progetto di ricerca condotto in Italia. L’Università degli Studi di Milano e il CREA (Centro di Ricerca per la Viticoltura e l’Enologia) di Conegliano collaborano a questo progetto che promette di rivoluzionare l’industria vinicola, offrendo soluzioni innovative per proteggere le viti dai patogeni fungini per di più utilizzando sistemi sostenibili e rigenerativi.
Il team di ricercatori di Grape4vine affronta queste sfide attraverso una strategia che punta su tre ambiti di sviluppo:
1. La valorizzazione dei Sottoprodotti: Durante la produzione del vino, vengono creati elementi di scarto come vinacce e sarmenti, spesso considerati rifiuti da smaltire. Tuttavia, nell’ottica di un’economia circolare, Grape4vine mira a trasformare questi sottoprodotti in risorse rigenerative, utilizzandoli come substrati per coltivare funghi, lieviti e piante i quali verranno usati, come vedremo, per produrre dsRNA.
2. L’utilizzo del dsRNA: Il cuore del progetto risiede nell’uso innovativo dell’RNA a doppio filamento (dsRNA). Queste molecole speciali possono essere utilizzate per “silenziare” temporaneamente geni specifici nei patogeni fungini o nelle piante, impedendo lo sviluppo delle malattie. È una strategia di gestione genetica su misura per contrastare gli agenti dannosi.
3. L’applicazione sul Campo: Grape4vine sta sviluppando un metodo di applicazione dei dsRNA tramite spruzzatura sul fogliame delle piante.
Attualmente l’efficacia del trattamento “spray” dura alcune settimane e richiede periodiche ripetizioni. Tuttavia rappresenta un’alternativa dal potenziale enorme rispetto agli attuali sistemi di protezione del vigneto.
Questo approccio innovativo non si limita solo alla difesa delle viti ma considera anche l’ambiente, la società e l’economia. Le valutazioni del progetto includono aspetti economici e sociali. L’obiettivo è rendere la produzione di vino più “eco-logica“, proteggendo le piante dai patogeni senza l’uso di prodotti chimici dannosi e sfruttando in modo efficiente i sottoprodotti, verso una viticoltura globalmente più sostenibile.
Questa innovativa gestione genetica delle viti non solo protegge le piante dai patogeni senza l’uso di prodotti chimici dannosi, ma ha anche un impatto positivo sull’ambiente. Riducendo la necessità di trattamenti chimici, si riducono gli effetti collaterali negativi sulla salute umana e sulla biodiversità. Inoltre, Grape4vine promuove una visione di economia circolare, utilizzando sottoprodotti dell’industria vinicola per coltivare funghi, lieviti e piante.
Il progetto Grape4vine sta aprendo la strada a una nuova era della viticoltura, ponendo la scienza al servizio della sostenibilità. La gestione genetica delle viti potrebbe rappresentare un modello per affrontare le nuove sfide cui è chiamata l’agricoltura in tutto il mondo, offrendo soluzioni efficaci e rispettose dell’ambiente per la protezione delle coltivazioni.
Mentre il progetto Grape4vine prosegue con successo, il settore vinicolo guarda con entusiasmo a un futuro in cui la scienza e la responsabilità ambientale si fondono per preservare la bellezza e la sostenibilità dei vigneti.
Per saperne di più visita il sito Grape4vine
Dovevamo immaginarcelo. Ci doveva pur essere qualcosa di straordinario, nei lieviti flor, che ce li ha fatti piacere fin dal primo incontro.
Studiandoli un pochino, siamo rimasti incuriositi dalla loro parabola vitale: laddove i comuni ceppi arrestano il loro metabolismo e muoiono (e in questo loro dissolversi continuano però ad impreziosire il vino di preziose sostanze), essi, invece, pare che risorgano. Da condizioni proibitive, per assenza di nutrimento e saturazione di etanolo, per loro indigesto e nocivo, riescono a reagire, mostrando una stupefacente capacità di adattamento. Il loro metabolismo subisce un impressionante cambiamento: si nutrono di ciò che fino a poco prima per loro era veleno; ancora, ciò che rifuggivano – l’ossigeno – ora diventa loro utile e prezioso.
Così da anaerobi diventano bravi a lavorare in ambiente aerobico, fornendo al vino una protezione e allo stesso tempo una singolare ed unica forma di mediazione nei confronti dell’aria, per la stragrande maggioranza dei vini uno spauracchio fra i più temuti. Accade loro una vera e propria conversione. Hanno questa peculiare ed invidiabile capacità: non sono irrigiditi nei loro schemi, si adattano, accorgendosi di quanto accade intorno a loro, capaci di cogliere comunque il bene dalle situazioni in cui vivono.
Prima, nel mosto, mangiano il fruttosio e le altre sostanze azotate, poi, man mano che il mosto si trasforma in vino (e sono loro che compiono questo miracolo), capiscono che è giunto il momento di cambiare. Cominciano così a sintetizzare l’etanolo. A questo stadio – ed è un’altra cosa interessante e che ci affascina – cominciano ad intrattenere una nuova vita sociale. Forse intuiscono che la difesa e la reazione al pericolo dovuto all’eccessiva quantità di alcool che si sta formando, come prodotto di scarto del loro lavoro fermentativo, potrà essere efficace solo se i singoli individui si assoceranno e si metteranno insieme. Ecco che questi lieviti formano delle catenelle fra loro, aiutandosi l’uno con l’altro, se così possiamo dire.
C’è un ulteriore aspetto, curioso, e divertente. Anch’esso ci trova accomunati e ci rende questi lieviti flor ancora più simpatici. A loro, come a noi, piacciono le bollicine! Sì, proprio così. In recenti studi, alcuni ricercatori hanno mostrato come la particolare mutazione al gene flo 11 di questi lieviti geniali (sì, lo possiamo dire) incide nella sintesi di una proteina della loro membrana cellulare. Al termine della fermentazione alcolica, tale proteina conferisce alle loro cellule una peculiare idrofobicità. Così da una fase pelagica, profonda, immersa nella massa del liquido, cercano di passare ad una fase superficiale, sulla parte superiore della botte o del recipiente.
Per trasferirvisi, i lieviti flor si agganciano alle bolle di anidride carbonica, che per loro fungono da vettore. Nel loro viaggio verso l’alto e verso l’aria presente nelle botti scolme, i flor sono trasportati dalle bollicine che tanto apprezziamo nei vini spumanti. Anch’essi dunque amano, a loro modo, l’effervescenza. E noi con loro, e da essi siamo sempre di più affascinati.
David Landini ha un suo modo di vedere le cose.
Eravamo curiosi di conoscere l’artefice di questo vino così straordinario e misterioso. Così abbiamo deciso di aggiungere una tappa al nostro bellissimo viaggio già pieno di appuntamenti con vini e persone da incontrare e da ritrovare. Sapevamo che sarebbe stata un’impresa tutt’altro che semplice. Ma l’attrazione e la curiosità erano troppe per non provare a cogliere l’occasione.
Era curioso anche lui, secondo me, di sapere chi fossero quei due squinternati che ti chiamano così all’ultimo momento durante un tragitto in macchina – direzione Puglia – con il vivavoce attivato per sbaglio e due ragazzini in sottofondo che cantano a squarciagola. Il vivavoce poi l’abbiam tolto, ma ormai era troppo tardi…
Lasciamo i bambini dai nonni e ci dirigiamo in quel di Pisa, Palaia, tra boschi fitti di querce e zone interamente dedicate alla lavorazione del tartufo.
Ci accolgono David insieme ad Alessia, la responsabile amministrativa, e ci introducono nella sala degustazioni dove avevano allestito uno spazio pieno di lavagne, matite colorate, fogli da disegno, piccoli sgabelli e giocattoli!
“Dove sono i bambini? Pensavo li avreste portati con voi!”. Eh sì, al telefono aveva sentito le loro voci, quindi ha pensato bene di preparare un’accoglienza su misura.
Perché David Landini ha un suo modo di vedere le cose! Il suo sguardo va oltre.
Lui conosce il mondo delle grandi aziende, di quelle più famose, perché ci ha lavorato come winemaker per tanti anni e tutt’oggi si occupa della direzione della ben nota Villa Saletta, in Toscana.
Ma David Landini ha un suo modo di vedere le cose: lui le vede con gli occhi dei suoi figli, che hanno provveduto personalmente alla prima “stesura” dell’etichetta del Viaggio di Landò. Poi il signor Sergio Staino ha fatto il resto, interpretando con il suo stile inconfondibile e con gli ormai celebri personaggi, Bobo e Bibi, il disegno dei bimbi di David, e cogliendo lo spirito fanciullesco e sognatore del loro papà: un uomo che ama le cose semplici, fatte con sapienza e cuore.
Così è il tempo di chi si accosta alla compagnia dei suoi vini: gioviale, saporito e appassionante. E durante tutto il viaggio, non importa quanto duri, continui a chiederti: “ma come fa ad essere così buono?”.
Perché più che un vino è una pozione magica e giocosa. Come quando i nonni incantano i bambini, accendendo i loro sguardi con le storie avvincenti di un’epoca che fu. Storie di un tempo antico che ti incatena al presente. Perché è lì che vorresti rimanere per sempre, ad ascoltare quelle avventure raccontate lentamente, da una voce calma e accogliente che non ha fretta di andar via.
E così David unisce saperi antichi e tecniche attuali, conducendo affabilmente coloro che vorranno percorrere insieme ai suoi vini una parte del loro viaggio.
Con qualche “fermata” nel suo mondo, un luogo dal sapore meraviglioso.
Il Viaggio di Landò – Prima Fermata è certamente tra i migliori vini rossi del nostro tempo.
Pochissime le bottiglie prodotte da David, circa 3.000, tutte numerate. Una vera rarità, difficilissimo da trovare anche negli scaffali delle enoteche più prestigiose.
A base di uve Canaiolo in purezza, vitigno storicamente utilizzato per contribuire al blend del Chianti, questo vino regala tantissime emozioni già al primo assaggio.
Sarà perché il vigneto ha novant’anni, e quando una vite raggiunge quell’età produce pochissima uva, ma di qualità eccellente. O sarà perché David lo realizza con l’idea ben precisa di esaltare il terroir interpretandolo secondo la sua personalità, quella di un uomo appassionato e sapiente che sa unire tradizione e innovazione. O probabilmente tutti questi elementi insieme sono gli ingredienti della magia del Viaggio di Landò – Prima Fermata.
Al calice si presenta di un meraviglioso color rubino. Il bouquet olfattivo è ampio, con note di frutti rossi e fiori che cedono il passo, dopo qualche oscillazione del calice, ai sentori di macchia mediterranea, con un bel parterre di erbe aromatiche. Al palato è goloso e franco, colpisce il tannino setoso ed estremamente elegante, che accompagna perfettamente la salivazione indotta dai sali minerali. Ottima corrispondenza gusto-olfattiva, sembra a tratti di mangiare delle ciliegie appena colte.
L’aspetto che più di tutti lo rende grande è che, proprio come accade con le persone di ampio spessore culturale, che riescono a esprimere riflessioni e pensieri complessi con concetti e parole semplici, così questo vino sa trasmettere tutta la sua levatura traducendola in una estrema facilità di beva: nonostante l’enorme ricchezza, non stanca mai.
Un vino generoso, capace di donare tanta gioia.
Da abbinare alla compagnia di persone care, ma sta molto bene anche con salumi e formaggi di media stagionatura. Perfetto con l’agnello porchettato.
Perché David Landini… ha un suo modo di vedere le cose.
E a noi è piaciuto tanto il suo punto di vista.
Un abbinamento da Sapiens
E’ indubitabile che per festeggiare un incontro o sottolineare e la piacevolezza dello stare insieme sia quasi immediato pensare ad uno champagne. Senza nulla togliere all’effettiva qualità e al valore simbolico del più celebre spumante francese, ci permettiamo di suggerire altrimenti (qualcosa sulla nostra idea di abbinamento si può leggere qui).
I motivi che ci fanno uscire, per così dire, fuori dal classico “ostriche e champagne” sono tre:
1. Il vino che abbiamo in mente è in se stesso un incontro e un matrimonio d’amore;
2. Questo incontro poi si “sposa” assai felicemente con un altro elemento tipico della giornata degli innamorati, ossia il cioccolato;
3. Infine si tratta di un vino che è dolce, ma non stucchevole. Molto morbido, ma fragrante al tempo stesso.
4. Questo quarto punto è un Bonus, perché è ora che lo sappiate: l’abbinamento ostriche e champagne è terribile! Qualcuno doveva dirlo.
Meglio champagne e foie gras. Per le ostriche invece, vi suggeriamo di aggiungere una goccia di Vernaccia di Oristano Doc. Ma questa è un’altra storia…
Oggi vogliamo parlarvi di un grande vino prodotto dai nostri cari amici Mario Pojer e Fiorentino Sandri che si chiama Merlino, perché è magico davvero (cf. qui).
Un’idea che viene da lontano
Il più grande problema dell’enologia dei secoli anteriori a Pasteur e alla moderna tecnologia di vinificazione era quello di conservare il vino. Uno dei rimedi più efficaci, scoperto a metà del XIII secolo, fu quello di aggiungere al vino altro alcool, per impedire fermentazioni e acetificazioni indesiderate.
Oggi sappiamo il perché di questa tecnica: con un elevato grado alcolico, i lieviti fermentativi muoiono; e se l’alcool viene aggiunto a fermentazione non completa, rimarrà nel vino un residuo zuccherino, che manterrà quindi un gusto dolce al liquido. Questa in sostanza è l’idea che soggiace al Porto, forse il più conosciuto al mondo fra i vini cosiddetti fortificati.
O, per chi preferisce il lessico alla francese, vini mutizzati. I cugini d’oltralpe infatti, con il loro consueto estro comunicativo, chiamano l’aggiunta di acool mutage, mutizzazione, giocando sul fatto che con il conseguente aumento di gradazione alcolica cessa il ribollire gorgogliante del mosto in fermentazione.
Un pò di Porto in Trentino
Dai loro viaggi di studio e confronto, in zone e cantine celebri, Mario Pojer e Fiorentino Sandri riportano sempre idee e fermenti. Fin da subito virtuosi distillatori – celebre è l’aneddoto che racconta come la guardia di finanza scoprì la grappa clandestina che il giovane Fiorentino Sandri distillava a casa -, ebbero l’intuizione di usare il loro brandy per fortificare uno dei vini che producevano.
Così divennero l’unica azienda italiana che produceva in proprio i due elementi che formano un vino fortificato (convinti fautori di collaborazione e associazione, si distinguono anche per il contributo al risveglio della sensibilità per la produzione italiana del distillato: cf. qui ). Il controllo della qualità è pertanto assicurato e gli standard produttivi non si abbassano mai.
Rispetto al celebre Porto, la via della fortificazione è gestita in modo un pochino diverso. Se sulle rive del Douro lo stile ossidativo è piuttosto marcato, e famosi sono i Vintage, con lunghi affinamenti in bottiglia, a Faedo è solo il brandy ad essere lungamente invecchiato.
Il risultato è un’incredibile miscela di sentori. Proprio dal lungo affinamento in botte, del brandy sono il profumo di cacao, di vaniglia, di spezie. Dall’altra parte, i sentori fruttati di ciliegia e di marasca fanno parte del tipico “corredo” del lagrein, che conserva – all’interno del prodotto finale – tutta la sua fragrante freschezza.
Due componenti fusi insieme
Per distillare il brandy, si parte da una base che di fatto è una porzione del vino che verrà poi usato per le basi spumante dell’Azienda. Quindi una particolare spremitura da uve chardonnay, pinot nero e pinot bianco. Inutile dire che la qualità è alla base! Per non parlare dell’esperienza e delle innovazioni nel processo di distillazione in quel di Faedo! Basti ricordare che il liquido alcolico affina almeno 10 anni in botte, poi un altro periodo in acciaio.
L’assemblaggio con il lagrein avviene quando il mosto in fermentazione arriva intorno ai 4 gradi alcolici. La percentuale di brandy che si aggiunge al lagrein arriverà a circa il 30-40 % della porzione totale. Una volta assemblati, ai due liquidi si lascia ancora del tempo per amalgamarsi meglio, nella quiete silenziosa delle botti dove era stato ad affinare il brandy.
Una sorta di luna di miele, in cui il brandy porta il lagrein a conoscere i luoghi dove lui è maturato.
Solo quando i due hanno avuto modo di fondersi insieme, esaltando l’uno le caratteristiche dell’altro, il Merlino viene imbottigliato. Un’altro colpo di genio: indicare in etichetta le due annate: ad esempio, sulla bottiglia che è uscita sul mercato nel 2021, la vendemmia del brandy è quella del 2005 e quella del lagrein è la 2018.
Un caleidoscopio di sensazioni, da completare con un ultima gioia
Un vino unico e armonico, in cui solo la forzatura di un esame organolettico da professionista scomporrà i vari elementi. La magia del Merlino consiste proprio in un’equilibrata complementarietà. La dolcezza portata dagli zuccheri residui nel mosto “mutizzato” è bilanciata dalla freschezza del brandy.
Un vino dolce ma non sdolcinato, quindi. Il tannino, comunque presente nel lagrein, è ammansito dalla morbidezza della componente alcolica. Una struttura importante e un corpo di tutto rispetto, allegeriti però dai sentori e dagli aromi fini e delicati della frutta del lagrein.
Un connubbio che paradossalmente dà il meglio di sé aprendosi a stimolazioni sensoriali terze: in un palato intriso dall’untuosità del burro di cacao e già colpito dai tannini presenti nel cioccolato, non può avere piacevolmente spazio il sorso di un rosso qualunque. Occorre un vino duplice, che agisca sui due fronti, pur rimanendo sempre e armonicamente uno.
L’assaggio di cioccolato e di vino non provocherà una sensazione gustativa consequenziale, ma all’interno della bocca i due elementi potranno fondersi davvero, amplificandosi e raggiungendo un effetto di piacevolezza ineguagliabile.
Nell’estate 2020 viaggiammo in Sardegna, non per tuffarci nel suo mare cristallino, ma per una settimana di full immersion nelle cantine e nella cultura dei vini ossidativi della costa occidentale dell’isola.
Per certi versi, era un mondo a noi quasi del tutto sconosciuto. Eppure, qualche idea preconcetta la avevamo. Sentori e sapori del vino ci costringevano a rimodulare i nostri canoni gustativi, e lo facevamo volentieri.
In testa, però, rimanevano alcune considerazioni teoriche, mandate a memoria durante lezioni e corsi, in base alle quali avevamo alcune ipotesi di abbinamento. In parte già verificate, altre che avemmo il piacere di verificare insieme ad alcuni produttori: al cospetto di vignaioli inizialmente increduli, fu davvero emozionante assistere alla loro sorpresa, nel gustare di nuovo il loro vino abbinato a cibi cui non avevano mai pensato prima.
Analogo scetticismo, però, lo provammo anche noi di fronte alla proposta, fattaci da un giovane produttore di Vernaccia di Oristano, di abbinare le sue etichette con frutta fresca di stagione, anguria o melone.
Scetticismo e sorpresa, perché fra sommelier circola un dogma: con la verdura e la frutta a sé stanti non si abbina nessun vino. In quell’occasione, tuttavia, non potemmo fare tale esperimento: così rimase in sospeso quell’insolito accostamento, che Davide Orro ci assicurò perfettamente riuscito e piacevolissimo.
Sorrideva, come fa spesso, e questo poteva indurci a credere che ci apparecchiasse uno scherzetto. Allo stesso tempo, come fa altrettanto spesso, era fermo e sicuro di quello che diceva.
Quella circostanza mi è tornata in mente tempo dopo, leggendo alcune note del professor Tommaso Montanari, celebre divulgatore di storia e di cultura dell’alimentazione.
Derivata dai principi della medicina ippocratica e galenica, la dietetica medioevale intendeva – semplifico moltissimo – la digestione come un processo di combustione, per la quale un eccesso di cibi classificati come freddi sarebbe stato dannoso. Beninteso, il binomio freddo/caldo non si riferisce alla temperatura di servizio, quanto piuttosto ad intrinseche qualità.
Ad esempio, la freschezza e l’acquosità di troppa frutta potrebbero rischiare di alterare il naturale calore dell’organismo. Secondo questa visione, gli umori corporei debbono essere in equilibrio, e per non alterarlo, cibi dalla “frigidità” eccessiva occorre che siano temperati, da una cottura vera e propria o almeno dall’accostamento con il vino, bevanda dall’intuibile qualità calda.
Fra i curiosi aneddoti che Montanari cita ad illustrazione delle sue narrazioni, ricordiamo l’abitudine della pera cotta nel vino e un’usanza – a noi finora sconosciuta – tipica della Francia, di consumare il melone con un bicchiere di Porto o di un vino dolce di gran corpo (M. Montanari, Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Bari 2009, 33-39).
Capite come leggendo le pagine di Montanari abbia dovuto immediatamente ricredermi su un’abbinamento a primo acchito giudicato improbabile: che anche l’anguria assieme alla Vernaccia di Oristano trovino la loro origine in saperi antichissimi, con una coerenza e visione olistica molto più originali e affascinanti di tante idee di abbinamenti strampalati e bizzarri?
Rimaneva solo la controprova delle sensazioni organolettiche provocate dall’accostamento in questione. E dobbiamo essere sinceri: per questa volta abbiamo rinunciato a compilare la scheda tecnica dell’abbinamento, utile sì a rendere evidente e ragionevole l’accostamento, riuscito o meno.
Eravamo in compagnia di amici bevitori: il consenso è stato unanime e contagiosa la sensazione di benessere e di piacevolezza. Ed è bastato questo. Esperienza ed erudizione convergevano con la soddisfazione del gusto! Un vero abbinamento da sapiens!!
D’ora in poi potremo sorprendere altri commensali, proponendo loro un vino anche per la frutta. E lo potremo fare non perché avvinazzati fino all’estremo, fino all’ultima portata, ma con un consapevolezza culturale nuova ed interessante.
Sebbene alcuni “cocomerari” romani amici ci abbiano una volta aperto il cuore svelandoci segreti e stili di vita di un vero venditore di angurie, non possiamo ora dare indicazioni su dove e come acquistare un buon cocomero. Possiamo indirizzarvi, invece, verso un’ottima Vernaccia di Oristano(qui), ed augurarvi un piacevolissimo ristoro.