Ho avuto l’occasione di partecipare ad una serata eccezionale, quelle di cui si potrà dire “io c’ero”: una verticale storica di trenta annate di un vino bianco: Terre Vineate, Cantina Palazzone.
Del resto il produttore, Giovanni Dubini, è per me un riferimento da lungo tempo.
Pensando a lui, mi viene spontaneo associarlo al tolkeniano Aragorn, nella sua veste di ramingo: Granpasso, colui che cammina velocemente con le sue lunghe gambe attraversando la terra di mezzo, da est a ovest.
Sarà perché, come Aragorn, anche Giovanni Dubini cammina per il mondo intero. Cioè, per la verità pedala in giro per il mondo in sella alla sua mountain bike. O forse sarà per la sua figura alta e longilinea.
Ma sospetto che soprattutto sia per l’incredibile capacità di dare nuova vita alla gloriosa dinastia dei vini di Orvieto, un territorio “vineato” quasi del tutto perduto nel corso della storia, che sembrava essere inesorabilmente giunta al suo declino.
A cominciare dall’antica Locanda Palazzone – vedete che ho ragione, c’è perfino la locanda a suggellare il parallelismo con Aragorn – Giovanni interpreta con rinnovato vigore e fierezza il suo territorio e ne racconta virtù e pregi attraverso gli incredibili vini che da esso trae.
Credo sia questo particolare slancio, la fede che ha sempre riposto in questo luogo, il motivo che racchiude il mistero, il segreto della sua saggezza. Quasi ad essere una specie di mistico custode dell’Orvieto.
È una persona davvero affabile Giovanni, ma è altresì discreto e di poche parole. Quelle che servono. I vini che fa, invece, hanno molto da dire.
Questa cosa la so fin dal primo incontro e fin dal primo assaggio. È lui che mi ha fatto comprendere come mai i vini di Orvieto sono stati tra i più famosi al mondo. E non me l’ha spiegato a suon di parole. L’unica cosa che mi ha detto, lo ricordo ancora come fosse ieri, è stata: “Tieni, assaggia questo – versando il vino nel mio calice – Capito, sì?”.
Incredibilmente… Sì, avevo capito!
Più che al livello intellettivo, in quel momento avendolo assaggiato, assaporato, mi sembrava piuttosto di poter comprendere in maniera davvero molto misteriosa – ed era ancora dentro di me – la grandezza di un grande vino bianco.
Non ne afferravo i termini, non ho nemmeno provato a definirla, ma intuivo di essere al cospetto di qualcosa di molto insolito, di molto diverso dalla maggior parte dei vini bianchi assaggiati fino a quel momento. Avevo trovato quel calice elegante, leggiadro, e allo stesso tempo di infinita eloquenza.
È un concetto difficile da definire quello di “grandezza” di un vino. Fino a pochi anni fa, spesso era sinonimo di potenza: profumi intensi e sfacciatamente penetranti, sapore deciso, corposo e pieno. Ma quel calice si presentò in maniera molto diversa dai grandi blasoni dell’orvietano e, più genericamente, dai soliti noti italiani e internazionali.
Assaporare Campo del Guardiano ha acceso immediatamente in me desiderio e curiosità. Da un lato di conoscere questo affascinante territorio, la sua storia, la tradizione, la cultura, che quel bicchiere aveva iniziato a raccontarmi. Ma allo stesso tempo, desiderio e curiosità di conoscere vini bianchi autentici e di grande longevità. Perché l’etichetta che mi era stata offerta, non era dell’annata corrente. Aveva ben 5 anni di affinamento in bottiglia e all’epoca – parliamo ormai di 15 anni fa – era una situazione insolita da trovare.
E nel mio cuore è sorta chiara, quasi fosse una necessità, la domanda: cos’è mai questo vino?
Ripeto, non riuscivo ancora ad afferrare bene cosa stesse succedendo. Sapevo solamente di voler ripetere quell’esperienza, di volerne ancora.
Ci trovavamo al Salone delle Fontane, a Roma, durante una importante fiera di settore. Avevo terminato il corso per Sommelier da qualche tempo, quindi pensavo di essere super esperta e, per giunta, avevo alcune certezze nella vita. Una di queste era che il vino buono sapeva… di legno. Eh lo so, ma all’epoca era così. Quelli buoni odoravano di vaniglia, burro e boisé e al palato erano morbidi, rotondi e perfetti.
Nel corso degli anni abbiamo avuto modo di conoscerci meglio con Re Giovanni, di passare qualche momento insieme. Il suo stile, nel vino come nella vita, segue sempre il tracciato dell’autenticità. Non è uomo di tanti fronzoli, è schietto nel trasmettere quello che pensa. È fortemente ancorato alle tradizioni del suo territorio intese come best practice trasmesse di generazione in generazione.
E, come dire, si vede che fa parte di quelle persone che cercano di rimanere fedeli a loro stesse passando la vita alla scoperta della propria vocazione, del proprio posto nel mondo, sarà per questo che l’ha “pedalato” praticamente tutto. E così i suoi vini.
Ciò si è reso evidente durante la degustazione del 5 maggio 2023, dove abbiamo potuto assaggiare tutto il lavoro svolto per trent’anni, un progetto portato avanti con convinzione e coraggio, necessari a destrutturare i suggerimenti del mainstream su come debba essere il vino e in particolare, un grande vino bianco di Orvieto.
E – al pari tutti i tradizionalisti autentici – va da sé, Giovanni è anche un grande innovatore.
“La tecnologia ci permette di risolvere numerosi problemi. Noi qui la utilizziamo cercando di realizzare e mantenere sempre più integro il vino”. Con queste parole ha introdotto la magnifica serata celebrativa per i trent’anni dalla prima etichetta di uno dei suoi vini più rappresentativi: il Terre Vineate.
Più tardi, dopo aver già assaggiato le prime cinque annate, gli ho chiesto cosa intendesse per “mantenere il vino integro attraverso la tecnologia”. Per conoscere la sua risposta guarda il video.
Giovanni cerca di realizzare un vino mantenendolo più integro possibile. Se hai guardato il video, hai certamente compreso come questa sensibilità si trasformi in concrete pratiche produttive come, nell’esempio citato da Giovanni, l’utilizzo del flottatore, un macchinario che permette l’illimpidimento per via meccanica anziché chimica, evitando quindi l’uso di bentonite o simili.
In che modo si traduce tutto ciò nel calice? Cosa comporta avere questo approccio? Direi che un ottimo indicatore sia l’esito finale e cioè la qualità del vino e la sua capacità di attraversare il tempo, da una parte, e dall’altra la non omologazione, l’originalità intesa come unicità. Qualità e originalità del vino sono, secondo Giovanni Dubini, due elementi che derivano dal terroir, inteso come suolo, esposizione, clima, e dall’annata.
Non è possibile infatti avere ogni anno un vino identico alla sua edizione precedente: perché oltre che di un territorio specifico cui offre dimora, ogni etichetta è figlia della sua annata e anche di essa mostra i segni.
Ebbene posso testimoniare che di quindici vintage di Terre Vineate, dalla più recente, la 2021, alla più antica, la 1993, tutte erano assolutamente vitali, senza alcun cedimento alla decadenza, men che meno all’appiattimento. Ognuna diversa dalle altre, con una propria personalità a raccontare le vicende e le avventure dell’annata da cui hanno tratto origine e quelle del territorio che le ha viste prender forma. È stato come ascoltare una cronistoria, leggere il diario segreto che ogni bottiglia aveva annotato.
Per di più questo è accaduto non già per un vino concepito per l’evoluzione; Terre Vineate infatti nasce per la quotidianità.
Appare dunque sempre più evidente che quando i produttori seguono la strada, seppur faticosa e incerta, della ricerca di autenticità – quasi come mantenersi fedeli a una promessa, quella di custodire il giardino, la nostra casa comune – questo fa la differenza. E nasce un sapore nuovo, autentico, non più edulcorato, che non scende a compromessi con ciò che chiede il mercato, e da cui deriva l’inevitabile omologazione.
Eccolo il segreto di Giovanni. È un segreto che accomuna tutti i bravi genitori, tutti i migliori educatori, tutte le persone intelligenti: lavorano per far crescere, traendo il meglio che ciò di cui si occupano abbia da offrire, preservandone ad ogni costo la vocazione, il desiderio profondo del cuore.
A Giovanni Dubini il merito di non essersi arreso di fronte alla sfida di credere nelle sue – è proprio il caso di dirlo – radici. Le etichette di Cantina Palazzone ci fanno ben comprendere come mai il vino di Orvieto è stato tra i più famosi al mondo.
Perché così è ogni grande vino: non solo da bere, ma da incontrare. Non da descrivere velocemente con tante parole, ma innanzitutto da ascoltare.