Vini Piwi. I super-bio, i veri resistenti
Il lessico alla base della storia
Quando parliamo di vini Piwi dobbiamo tenere a mente una cosa fondamentale: quasi tutte le discipline e attività umana hanno ciascuna un lessico proprio. A quanti non vi sono addentro esso può risultare incomprensibile e causa di fraintendimenti. Ciò vale anche per la viticoltura. Ad una persona urbanizzata, la vista di un vigneto ben curato può suscitare una nostalgia bucolica e romantica; esso non immagina, invece, che quello sia un campo di battaglia. Sì, un viticoltore sa bene che in vigna vi sono attacchi, a cui si deve rispondere con urgenza: la resistenza per lui non è un tema storico e passato.
E’ una questione assai attuale. Ecco perché, negli ultimi anni, il lessico dei viticoltori si è arricchito di un’abbreviazione di una parolina tedesca, che riassume in una sola parola resistenza e nemico cui occorre resistere: piwi, per l’appunto, che sta per pilzwiderstandfähige, ossia capace di resistere ai funghi. La guerra che la viticoltura europea ha combattuto negli ultimi secoli del millennio scorso ha conosciuto diversi ribaltamenti di fronte, con drammi alternati a momenti di sollievo, poi di nuovo catastrofi originate da ciò che sembrava apportatore di vittoria. Insomma, occorse una tattica degna del barone von Clausewitz.
Ripercorriamola a grandissime linee. Di fronte alla diffusione della phillossera vastatrix, un insetto che attacca l’apparato radicale e e che, come suggerisce il nome, faceva strage impietosa dei vigneti europei, gli studiosi intuirono un possibile rimedio nella vite americana, che mostrava resistenza al malefico insetto. Così, per non perdere la qualità dell’uva dei vitigni da secoli a dimora in Europa, essi furono innestati su radici di viti americane. Solo in pochissime zone e per pochi vigneti, la vite rimase a piede franco, ossia con l’apparato radicale originale. Se fu vinta la battaglia con la fillossera, l’importazione di viti estranee all’ecosistema continentale determinò, a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, l’arrivo e la diffusione di altre nuove malattie, questa volta causate non da afidi ma da funghi, prima l’oidio e poi la peronospora. Altri decenni di ansia e di tentativi approssimativi, fino a quando il francese A. Millardet inventò la “poltiglia bordolese”. Nemmeno nell’originale francese – bouillie bordelaise – il suono non ispira nulla di buono: si tratta infatti di un composto di rame, zolfo e calcio, poi diluiti in acqua e vaporizzato.
Eppure divenne il rimedio efficace e necessario per tutelare le vigne, soprattutto in situazioni critiche di umidità e pioggia. La battaglia fu vinta; eppure, se allora non si badò troppo agli effetti collaterali, il progresso scientifico e la maggiore sensibilità alla salubrità dell’ambiente oggi interroga e inquieta. Soprattutto in luoghi dove vigneto ed edifici antropici sono frequentemente contigui: irrorare trattamenti in vicinanza di abitazioni o, peggio, di scuole o asili, diventa assai problematico. Così, ad esempio, la legislazione altoatesina impone un limite e una distanza di sicurezza assai stringente: l’estensione dei vigneti aumentata e che ora lambisce e si addentra in centri abitati obbliga il viticoltore a ripensamenti e a nuove strategie.
Vini Piwi: la nuova strada dell’ibridazione
Probabilmente né un consumatore medio né un piccolo viticoltore immaginerà che nella scienza agronomica applicata alla vigna possa essere importante la “demasculazione”. Eppure tale processo, una sorta di castrazione, è l’inizio di un itinerario che può durare oltre i venti anni, da un’ipotesi teorica alla definitiva affermazione nella prassi. L’idea iniziale fu quella, ancora una volta, di associare la particolare robustezza della vite americana, e in generale, di viti selvatiche ed extraeuropee alla qualità sublime della vite domestica europea.
Dovendo fronteggiare un fungo, e non più un insetto che attacca le radici, non era un nuovo innesto ciò che serviva; la capacità di resistere indenne alla diffusione di malattie funginee doveva essere assunta nell’identità stessa della pianta. Se la strada dunque era quella di cercare di ottenere nuove piante, occorreva favorire nuovi incroci, impedendo l’autoimpollinazione delle viti, piante che nella sottospecie sativa sono ermafrodite. Eliminando manualmente le antere maschili, durante la fioritura (lo si fa con forbicine o pinzette!), e accostando pollini di altre piante selezionate all’uopo, nel grappolo si formeranno acini con vinaccioli di piante con due genitori: uno di essi porterà la resistenza alle malattie e l’altro la qualità del frutto.
La teoria parrebbe chiara, ma come accade con gli uomini, i figli, pur simili ai genitori, sono alterità misteriose, e solo crescendo riveleranno i loro caratteri. Così, il piccolo seme viene raccolto, accudito e fatto germogliare. Quando si sarà formata una piccola pianta, inizieranno i test empirici. Dapprima, in serra, in una sorta di stanza della tortura, verrà creata una situazione esageratamente favorevole alla propagazione di funghi, per vedere da subito le piante toste e capaci di sopravvivere simili condizioni proibitive.
Gli esemplari che superano il test saranno quindi piantati in campo e coltivati fino alle prime vendemmie, e in microvinificazioni separate se ne studieranno poi i caratteri organolettici. A dir la verità i primissimi tentativi furono assai deludenti, sul versante della qualità dei vini. La ricerca e la sperimentazione è continuata, arrivando a vini di ottima qualità. Ai nostri giorni siamo alla sesta generazione di incroci, e quasi tutti i piwi hanno oltre il 95% di genoma di vitis vinifera. La nuova sfida è piuttosto trovare il terroir adatto ad ogni vitigno, dato che l’ambiente esterno interviene grandemente nell’espressione del fenotipo.
Il progresso, fra tradizioni valide e condizionamenti già visti
Con i vitigni piwi si rivive, accellerato e analogo, il millenario processo di domesticazione della vite che attuarono i nostri antenati. Ci sono nuovi vitigni da conoscere in profondità, vini a seguire nell’affinamento e nelle prospettive. Non mancano anche quanti dubitano, preferendo i consueti e noti legami fra un particolare vitigno e la sua territorio di elezione, come pure con la metodologia di produzione di vino più appropriata. A proposito, la scienza potrebbe offrire altri possibili interventi, che hanno il vantaggio di mantenere pressoché intatta l’identità di un vitigno, e quindi tutto il retroterra tradizionale di coltivazione e di vinificazione. Si tratta dell’editing genetico e della cisgenesi. Con la prima metodologia si conserva l’identità di un vitigno, modificando geneticamente la risposta che la pianta, ad esempio un aglianico o un sangiovese, metterebbe in atto di fronte ad un attacco di un fungo; con il seconda si entra nel campo degli OGM (trasferimento di geni o di sequenze di dna da una pianta all’altra), verso i quali il dibattito presenta gradi di dialettica e di scontro troppo esacerbati. La ricerca si sta muovendo con passi da gigante, e alcuni viticultori assicurano che manchi poco all’ottenimento di cloni di vitigni tradizionali resistenti.
Tornando invece ai piwi, siamo già ora, nel presente: con essi si passa nell’ambito dell’iper-bio o del super-bio, molto di più della già tanto importante coltivazione biologica. Riassumendo: non solo si tratta di incroci naturali, l’intervento artificiale dell’uomo è limitato alla fase dell’impollinazione, ma – e questo è l’aspetto più rilevante – la resistenza ottenuta permette di abbattere, se non azzerandolo del tutto, il numero dei trattamenti chimici e a base di fitofarmaci, che un viticoltore deve effettuare nel corso del ciclo vegetativo della pianta. Per dare un’idea, si può passare da una ventina di trattamenti ad uno o due, o a zero trattamenti l’anno. La qualità di coltivazione biologica o naturale ne viene, in tal modo, enormemente implementata. Se, in generale, la vigilanza e il passaggio in vigna con gli anticriptogamici ha un costo importante, ancora maggior sarà il risparmio in tempo, fatica e soldi per un viticoltore che opera magari su terreni in pendenza o difficili da raggiungere.
Ad un risparmio, tuttavia, si oppone un mancato guadagno: le aziende farmaceutiche e di prodotti per la viticoltura non sono state certamente a guardare, e l’azione di lobby è stata influente. Se da una parte le riserve verso i vini piwi avevano un’iniziale punto di partenza oggettivo, a proposito della qualità, dall’altra, dietro a certi interventi di politica agroalimentare c’è stato senza dubbio qualche interesse economico. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Eppure di novità ve ne sarebbero, eccome. Infatti, fra le tante caratteristiche che i nuovi ibridi portano con sé, vi è ad esempio, per alcuni, un migliore adattamento ad ambienti più freddi, per cui si impiantano viti e si riescono ad ottenere grappoli con piena maturazione anche in zone in cui la vite non era mai stata messa a dimora. Nella problematicità di stagioni sempre più calde nelle zone tradizionalmente vocate, riuscire a vendemmiare e a vinificare anche a quote altimetriche mai pensate prima potrebbe essere davvero risolutivo per il futuro. Questo è il grosso lavoro che si è fatto negli anni passati, e che si dovrà fare ancora: cercare di capire il migliore contesto pedoclimatico, nel quale i nuovi vitigni possano esprimersi al massimo.
Furono necessari secoli e secoli, per comprendere le zone vocate più vocate per il pinot nero o per lo chardonnay, e per capire che un merlot di Bordeaux non poteva assomigliare allo stesso vitigno a dimora sulla costa Toscana. Con le moderne scienze e con la possibilità odierna di scambi di informazioni, non occorrerà molto tempo. Sarà necessaria, questo sì, la pazienza e l’audacia, anche per i degustatori: un vitigno piwi produce vini non immediatamente riconducibili ai profili organolettici di quanto è consuetudine bere. Avendo a disposizione l’albero genealogico di un nuovo vitigno, si potrebbe ricercare in bottiglia richiami e sentori dei progenitori conosciuti. Ad es., fra i progenitori del bronner vi è anche il riesling; e in effetti in qualche bottiglia, magari di una vecchia annata, si coglie qualche sorprendente somiglianza.
Ma certamente è più interessante e stimolante lasciar perdere paragoni sterili e saccenti, per valutare un calice per quello che è: la storia, i caratteri e il territorio di un piwi hanno tanto da dire in sè, senza bisogno di appoggiarsi al conosciuto e allo scontato. Si dovrà uscire dalla comfort zone sensoriale, che troppo spesso appiattisce vini e bevute tutte eguali. Comprare una bottiglia da uve resistenti non è solamente un atto ecologico; si tratta di rimettersi in viaggio, accompagnando il viticoltore nella sua ricerca, come un tempo fecero generazioni e generazioni. Un ulteriore aspetto intrigante e fascinoso è quello relativo al naming di nuovi vitigni. In alcuni casi si è fatto riferimento ai progenitori, ad es. per il cabernet cantor; per altri si è optato per un nome di fantasia e vagamente evocativo, come il solaris. Ancora, vi è l’esempio del clisium, un ibrido studiato per la messa a dimora in un’ambiente specifico, la trentina valle del Chiese, di remotissime tradizioni viticulturali, abbandonate poi negli ultimi secoli.
In sostanza, i vini Piwi sono vitigni e territori tutti da ri-scoprire: scopri tutti gli articoli sul nostro blog.
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